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Al piano terra di un palazzo fatiscente, in una Francia forse futuristica, c’è la macelleria Delicatessen, che serve quasi esclusivamente gli inquilini del suddetto palazzo. Più o meno ogni settimana, il macellaio Clapet, che è anche padrone dell’edificio, assume un giovane tuttofare, che poi misteriosamente sparisce, e, il giorno dopo la sparizione, serve carne fresca ai suoi inquilini. Fino a che arriva Luison, un ex clown romantico e sensibile che si avvicina molto alla figlia di Clepet, Julie, e che potrebbe cambiare tutto.

Questa, a grandi linee, è la trama del film, ma non la storia che voglio raccontare, perché la trovo ovvia e perché il sentimento amoroso o romantico mi tocca fino a un certo punto, anche se inserito in ambienti, come dire, eccentrici, come quello del palazzo amministrato/tiranneggiato da Clepet; e non voglio neanche raccontare la storia dei Trogloditi, terroristi vegetariani che vivono nelle fogne e lottano per cambiare lo stato delle cose.
Io sono qui per raccontare di Aurore Interligator.
Aurore è una degli inquilini di Clepet, è sposata (non sappiamo se e quanto felicemente) con Georges Interligator e corteggiata dal vicino di casa Robert Kube, che lei rifiuta perché le voci che sente nella sua testa definiscono l’uomo “frocio, impotente e testa di cazzo”; ma più di tutto, quello che Aurore vuole fare, quello in cui vuole assolutamente riuscire, è ammazzarsi. E ci prova organizzando tutti i particolari e senza lasciare niente al caso, armandosi di cappi, pillole, forno a gas aperto, fucile puntato, fornelli accesi.

Aurore è il frammento a mio parere più gustoso del mosaico sghembo, nel complesso prevedibile e abbastanza conservatore (ma c’è da dire anche che Jeunet non è e non diventerà mai un regista di pensiero, sceneggiatura e di costruzione, preferendo barcamenarsi, anche con un certo stile, tra trovate più o meno riuscite), e l’unico personaggio in grado di competere con il terribile, barocco e divertentissimo Clepet, che, in un mondo migliore, avrebbe avuto un ruolo da protagonista e un lieto fine.

Ma Aurore, bruttina, timida, voce dolce (in lingua originale come nel doppiato), aspetto zitellesco, castigatissimo e curato, timorosa nell’usare espressione volgari, così carina, così previdente e così sfortunata (perché ogni aspirante suicida dovrebbe ricordare che il caso ci mette sempre lo zampino, soprattutto quando ci si illude di aver paventato tutto il paventabile e calcolato anche l’imprevisto), è la vera chicca di quell’umorismo nero di cui il film si fa bandiera e che mi ha attratto verso questa pellicola che, come ho già detto, per buona parte tradisce le sue premesse (soprattutto nella trama portante), dopo un inizio davvero stuzzicante e dei titoli di testa ispirati come pochi; perché la tragedia di Aurore è esatta nella sua indefinitezza, precisa nella sua sospensione ed esilarante nella sua (mancata, per la maggior parte del film), attuazione.

Aurore è la catastrofe in potenza, il disastro che monta, l’autodistruzione destinata a diventare apocalittica e scarnificante: il suo percorso è quello dell’annuncio della fine che fa da specchio al massacro messo in atto dal ridanciano Clepet, Aurore è l’acqua cheta che porta in sé abbastanza polvere da sparo per far saltare i ponti.

Perché poi, quando i ponti saltano, è come se l’aria si facesse più pulita, la visione più netta, i colori più saturi; e il fine dell’umorismo nero, quello riuscito, è proprio quello di rendere visibili le rovine per quello che sono, ci aiutano ad apprezzarne la vista e e ci rendono in grado anche di sorriderne.

(Chiara Lecito)