L’articolo è presentato da:
TripleP
Gli pneumatici del dissidente
A grande richiesta, torna la Throbbing Magazine, la rubrica che si occupa di filmati industriali. La scorsa settimana abbiamo ricevuto un curioso invito dalla Marburg Inc. (1) : “Il lavoro che intendiamo proporvi è il risultato della libertà che concediamo ai nostri collaboratori”. In breve, l’oscura azienda meneghina affermava che un semplice filmato promozionale si era dilatato, per l’ossessione del curatore, in un vero e proprio lungometraggio. Con queste premesse non potevamo che accettare l’invito alla proiezione. Ecco il resoconto di quell’insolita esperienza.
Mi passano a prendere un venerdì sera, con una Tesla Model 3 – ci tenevano molto a specificare il modello. Il presidente dell’azienda, con la sua stretta di mano omicida, sottolinea con enfasi il mio nome: «Lei deve essere Danihel C., della Hyde Press», mi dice «ho chiesto io di lei». Lo ringrazio e gli pongo subito alcune domande sul film, ma l’unica informazione che ricevo è il titolo dell’opera: The Atrocity Exhibition – tratto, immagino, dal capolavoro di Ballard. Durante il tragitto, mentre il presidente è occupato a illustrare la tecnologia dell’auto, faccio qualche ricerca sul tablet e trovo un film del 2000 con lo stesso titolo. L’autore è Jonathan Weiss, un regista di mediocri commedie, che un giorno, contro tutti i pronostici, decide di trasporre su pellicola un “romanzo impossibile da filmare”. Dopo aver cercato inutilmente una distribuzione, Weiss abbandona il mondo del cinema e fonda un’azienda di impianti hi-fi di altissima qualità, simpaticamente chiamata ΩMA (Oswalds Mill Audio). Provo a chiedere se si tratta dello stesso film, come risposta mi vengono illustrate le meraviglie del volante Yoke («Viaggiare con un sistema del genere è un esercizio terapeutico»), specificando che il regista della pellicola guida lo stesso modello di auto.
Arriviamo in periferia, presso un capannone industriale. Qui mi attendono tre soggetti alquanto enigmatici che si presentano con un biglietto da visita collettivo: Neza, Chalco & Itza, Consulenze (ribattezzati, dal presidente stesso, con il singolare nome “La Sequenza”: «E chi li ha mai visti da soli?»). Mi presento anch’io: «Piacere, Tanieli C., Hyde Press». I tre affermano, con evidente orgoglio, di essere i responsabili di un progetto “segretissimo e rivoluzionario”. Il Presidente mi fa un occhiolino e mi invita a entrare nel capannone. Superiamo decine di “laboratori”, che in verità somigliano a stand da fiera, e ci infiliamo in quella che dovrebbe essere una sala proiezioni, interamente composta di materiali isolanti di nuova generazione (Aerogel e Kenaf). «Questa sala costa come l’intero capannone con noi dentro» mi confida il presidente che, dopo averci fatto accomodare su poltrone autoregolanti, fa un cenno al proiezionista. Inizia il film.
Una voce narrante dichiara che la pellicola è il documento del crollo psichico di un certo Dr. Travis.
«Un eccellente elemento della nostra azienda, nonché futuro premio nobel» dice il Presidente con fare sempre più confidenziale – certo, e io sono Hunter Thompson, altro che Daniyyel C. Il sonoro opprimente e una lunga carrellata in un corridoio manicomiale (sequenza suggerita, almeno nel film di Weiss, dallo stesso Ballard) ci proiettano subito nell’atmosfera ossessiva del film, in cui le immagini “rappresentano codici di sogni non interpretabili”. I set sono stipati di oggetti e (crono)fotografie in un “connubio innegabile tra scienza e pornografia”: riviste esplicite e illustrazioni mediche, immagini di icone pop e funghi atomici, attrezzature chirurgiche e giocattoli in plastica. Gli esterni sono girati in paesaggi urbani resi astratti dall’abbandono o da discutibili riconversioni (cavalcavia, intersezioni autostradali, parcheggi multipiano), mentre la voce narrante, con una compostezza medica, espone teorie apocalittiche. Interessante è la trovata di inserire immagini disturbanti sui cartelloni pubblicitari, tra cui il celeberrimo scatto di Eddie Adams sull’esecuzione del Viet Cong. «Quello sparo è partito dal click della macchina fotografica. Ne ho le prove» mi confida il presidente senza l’accenno di un sorriso. Lascia passare qualche secondo e aggiunge: «Non le sembra irreale che la guerra tra le compagnie cinematografiche sia cominciata proprio in Vietnam?». Certo, gli ho risposto, è davvero buffo. Quasi quanto la Sequenza, che anziché guardare il film se ne sta in disparte, per conto suo, a medicarsi oscene ferite. «Hanno avuto un piccolo incidente proprio questa mattina. Ma credo che tendano, per qualche ragione, a sessualizzare ogni loro atto. E chi li capisce i geni». Anche se intuisco siano azioni programmatiche, le scenette grottesche dei consulenti e i commenti fuori luogo del presidente non fanno che aumentare la mia confusione. Mi concentro allora sul film e apprezzo la scelta del regista di utilizzare immagini di repertorio. Si comincia con filmati bellici in 8mm del versante vietnamita: donne e bambini con la pelle sciolta dal napalm, mutilati su barelle, villaggi devastati. A seguire, la controparte occidentale: militari convinti della loro dotazione missilistica, majorette maggiorate, esercitazioni balistiche muscolari. Per dare tregua allo spettatore, il bombardamento di immagini è inframmezzato da sequenze più accademiche, tra cui lo scambio di battute tra il supervisore di una clinica non meglio identificata e soggetti impossibili da identificare (giornalisti? delegati di una commissione d’inchiesta? ricercatori universitari?). Le più stranianti rimangono comunque le scene con il Dr. Travis: dialoghi irrazionali con un laconico personaggio femminile, assurde lezioni accademiche tra semiotica e psicopatologia, esperimenti psicoartistici che sembrano avere come unico scopo la dimostrazione empirica della sua follia («Una tecnologia distruttiva senza alcun obiettivo. Una sorta di ossessione»). A bruciapelo, l’ennesima boutade del presidente: «Mia moglie dice che il film è una sonda che ti entra nel culo e arriva a piantarsi nel sistema limbico». Eh no, il nostro caro presidente non sbaglia un colpo.
La proiezione continua, martellante e dissociata, nel frattempo provo a tirare le somme. Nonostante la fiacca rappresentazione di Xero (una delle proiezioni mentali del Dr. Travis), qualche ridicolaggine e lo scarso carisma del protagonista, il regista sembra aver indovinato il tono della trasposizione: andare avanti per accumulo, assonanze, variazioni, dove l’allucinato dottore, nella confusione iconografica, è il collante folle, la sinapsi incendiaria. «Perché è lì che avverrà la Terza Guerra Mondiale: nelle sinapsi» azzarda il presidente. Ormai non mi stupisco più delle sue affermazioni, anzi, le trovo un giusto corollario a un film che possiamo definire psicoattivo. Non per niente i tre della Sequenza, del tutto indifferenti alla proiezione, si sono ormai abbandonati a manifeste effusioni. Giusto in tempo per tornare sullo schermo e cogliere un altro punto a favore del film, che ci riporta, per coerenza, all’origine della nostra rubrica: i video industriali. Si passa da riprese di veri interventi chirurgici a crash test in slow motion, in uno dei quali viene testato l’impatto di un pistone su una cassa toracica. Questa volta, però, viene usato il cadavere di un essere umano. «La macchina da presa è una Pentazet», mi informa il presidente, «in grado di arrivare a 18.000 fotogrammi al secondo (in teoria anche a 30.000). L’università di Lipsia la usa per lo studio della fusione dei metalli». Di sicuro il presidente conosce le nuove tecniche di ripresa ultraveloce (le videocamere Phantom superano il milione di fps, per non parlare della tecnologia CUSP che arriva all’inimmaginabile velocità di 70 trilioni di fps), ma la mia curiosità era rivolta alla liceità della ripresa con il cadavere che, nonostante la sgranatura gli dia una certa distanza clinica, rimane agghiacciante. «Sembra quasi di vedere i giornalieri dell’Unità 731, non crede?» mi chiede il presidente, e scoppia in una risata stucchevole che non trova alcun sostegno.
Arriviamo al terzo blocco del film, senza dubbio il più singolare. Mi si avvicina il proiezionista e mi annuncia, con una certa reverenza («Stimabile Dr Danelis C.»), che sono state aggiunte, in via del tutto eccezionale, due sequenze non presenti nel final cut. Nella prima si scimmiotta un servizio fotografico: un ragazzo efebico, truccato e vestito da modella, si strofina languidamente al cadavere di Pasolini, abilmente ricreato. L’attore insiste sulle parti del corpo schiacciate dalle ruote dell’auto, il motivo ci è chiaro dopo la dissolvenza, quando appare il logo del prodotto commercializzato: TripleP, gli pneumatici del dissidente. Seconda sequenza: lo stesso attore di prima (stavolta travestito da funzionario effeminato: trucco eccessivo e baffetti da gagà) si fa largo tra la folla e rimane a contemplare il corpo senza vita di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault. Incurante dei presenti, si stende al suo fianco e chiude lo sportello, mentre la voce narrante, con fare materno, recita la frase: «Piccolo mio, ora ci sono io con te». A questo punto non mi sorprendo più dell’amplesso che la Sequenza, ormai senza alcun freno, sta consumando tra le poltrone.
È evidente che lo stordimento sia uno degli intenti principali del film (e della proiezione), ma più che dalle parti di certa sperimentazione sterile, siamo vicini alla tDCS (stimolazione transcranica con correnti dirette): il film ne è l’elettrodo, il presidente e la Sequenza, la soluzione salina per aumentare la conduttività delle scariche. E, devo ammettere, che la seduta The Atrocity Exhibition ha stimolato a dovere la mia corteccia cerebrale, su questo gli va dato atto. A fine proiezione mi sento stranamente lucido, sovraccarico ma lucido, e credo di aver capito, di riflesso, l’importanza del libro di Ballard che, con i suoi cinquant’anni di età, è di una modernità sconcertante. E domani, quando il corpo diventerà un’inutile appendice, sarà ancora più attuale. Lo stile frammentario, ossessivo e ripetitivo del libro (e di conseguenza del film) non è altro che una reiterazione tourettica paragonabile alla memetica e allo scrolling, a sua volta comparabile a una seduta d’ipnosi autoindotta. Ballard sembra dire che la percezione non è un surrogato, ma un attributo primario della realtà, dove l’attore principale non è più l’essere umano, ma il prodotto stesso delle sua deiezione mentale. L’incontenibile proliferazione visiva che emettiamo e subiamo – il corrispettivo perturbante di Cent Mille Milliards de Poèmes di Queneau – diventa, nei paragrafi modulabili del libro, un’impalcatura che non ha e non può avere una forma definita. The Atrocity Exhibition è un’opera in (s)costante divenire, un elegante e lucido attacco di epilessia. Un’opera profetica che, con i suoi continui riferimenti alle morti sessualizzate delle star, ci parla del ruolo invasivo e sovradimensionato dei fenomeni pop, che noi vorremmo scandagliare, fin dentro le viscere, come pornografi della visione e del sapere incontrollato.
La proiezione è terminata e il mio cervello non smette di creare associazioni mentali tra il libro di Ballard e la realtà – la Sequenza non è altro che una massa coitale simile a quella di Society. Mi viene da pensare alla diversità biologica e sessuale che, anziché venire accolta come uno degli apici evolutivi (pensiamo all’ermafroditismo animale), viene fatta passare per putrida perversione. Penso al gorgo vorace e senza fondo del Deep Web, dove fuggire lo statalismo e creare habitat dove veder fiorire i nostri impulsi disumani. Mi arrivano, come fosfeni, anteprime del Deepfake futuro: un mirabolante spettacolo di accuse e smentite su filmati virulenti, dove danzeranno capi di stato e papi, conduttrici e calciatori, fino al collasso della percezione. Il presidente cerca di scuotermi e mi chiede cosa ne penso del film, ma deve accontentarsi di qualche elogio smozzicato. Vengo portato fuori da quel circo pata-scientifico, ma le sorprese, a quanto pare, non sono finite. Come nelle anteprime delle grandi produzioni, ricevo in regalo dei simpatici gadget: un supporto digitale con la trascrizione dei desideri sessuali degli astronauti cinesi e un loop audio con i discorsi di Kim Jong-un in autotune, mixati al rumore di missili ipersonici; un frammento essiccato della metastasi di Steve Jobs e una pregevole riproduzione in resina dell’utero di Scarlett Johansson. «Si ritiene soddisfatto, mio caro Dănuț?» mi chiede il presidente. A oggi non sono ancora in grado di rispondere a questa domanda.
Epilogo scartato
A fine proiezione i tre consulenti erano svaniti. Al loro posto, un soggetto mai visto prima, di cui non riuscivo a intuire il sesso, l’etnia, o la specie. Potevo solo fare un’ipotesi, nulla più. Ecco, se avessi dovuto dare voce allo stato mentale in cui versavo, avrei potuto affermare che quell’essere fosse il prodotto dell’atto sessuale di Neza, Chalco & Itza. Proprio così, colui che dopo la proiezione mi ha portato con sé alle porte di El Cairo, in bunker abbandonati, a visionare snuff movie e procedure mediche avveniristiche, non poteva che essere la sintesi della Sequenza. E io, modesto giornalista, il residuo psichico di un essere umano.
Autore: Daniele C.
NOTE: (1) L’azienda afferma di occuparsi di biomeccanica con applicazioni nella sfera sessuale, ma non abbiamo trovato alcun riscontro nelle loro affermazioni.
Il film in versione originale
https://www.youtube.com/watch?v=BMKV3GgBVsk