Un gruppo di persone con le mani intrecciate sulla testa, tra le dita il rettangolo blu del passaporto. L’immagine, schiacciata dalla prospettiva, frammenta i volti e forma un cupo frattale, astratto e disumanizzante. Nessuno si muove, nessuno parla, l’unico rumore è un leggero fruscio di vestiti. Un funzionario passa tra le file a controllare i documenti, dei militari se ne stanno di guardia. Al tatto, il passaporto di un uomo risulta sospetto. Anzi no, è falso e quando il funzionario lo lascia cadere a terra l’uomo fugge via. Ma un fucile lo punta, prende la mira e spara. Adesso ho ancora più paura. Paura e vergogna. Il mio, di passaporto, è conforme? Penso di sì. O almeno credo. Cerco di muovermi il meno possibile e di non fare alcun rumore – ci riesco, non mi sento neanche respirare –, ma crollo quando stendono il cadavere su un telo. E questo mi scuote e mi riporta alla realtà. Non sono tra quella gente messa in riga, mi trovo in un’aula, insieme ad altri ragazzi. Stiamo solo guardando un film, Libera me di Alain Cavalier. Ma qualcosa mi dice che questa è una delle proiezioni più importanti della mia vita.
Frequentiamo un corso di cinema in un paesino della Tuscia. Dormiamo qui, in un piccolo albergo. Tra gli studenti l’atteggiamento più diffuso è la posa da intransigenti. Perché il cinema commerciale è merda, e quindi va odiato. La nostra è una resistenza inutile e infantile, ma al momento è l’unica che abbiamo e ce la teniamo stretta. Ricordo con tenerezza la prima lezione di sceneggiatura: i docenti erano Brizzi e Martano, gli autori dei cinepanettoni. Figuriamoci. Che schifo. Che ribrezzo. Ma perché li avete chiamati. Disertiamo la lezione. Incrociamo le baionette giocattolo e sbarriamo la porta dell’aula. Ma alla fine, quando si presentano, non trovano alcuna resistenza e con un paio di battute fanno saltare in aria le nostre misere trincee – certo, dopo qualche smorfia di dissenso. Non ci svendiamo mica senza lottare, noi. “La macchina da presa è amore e commercio…”, diceva Fossati. Concetto elementare che avremmo dovuto imparare a quindici anni, non a venticinque.
Tra i compagni c’è chi frequenta il corso anche se lo detesta. Perché non si può insegnare l’arte, sia mai. E poi alcuni dicono che questi corsi sono miseri, amministrati male, non portano mai da nessuna parte. Può darsi, ma è pur vero che si incontrano sempre vecchie glorie, grandi professionisti, personaggi interessanti. In un corso precedente ci siamo visti arrivare Tiberio Murgia (qualche anno prima della sua morte). E la settimana successiva un uomo anziano ma robusto, spalle larghe, occhi vivaci, con un panama bianchissimo e un paio di occhiali da sole: era Giulio Petroni, (qualche anno prima della sua morte), il regista che in Tepepa aveva diretto Tomas Milian e Orson Welles. Ne eravamo incantati.
Qui, nella Tuscia, abbiamo avuto l’onore di conoscere il grande Alberto Grifi, ribattezzato, dal documentarista Gianfranco Pannone, l’Eta Beta del cinema italiano. Grifi, uno dei più importanti registi underground della penisola. L’inventore, tra le altre cose, di un lavanastri e di un vidigrafo con cui ha realizzato quel capolavoro di Anna, nel 1975. Grifi, che suscitò entusiasmo nel mondo avanguardista con il film di montaggio La verifica incerta. Che in un filmato degli anni sessanta, con la sua voce nasale ma ben calibrata, diceva che l’occhio è nato da una lacrima. Ultrasessantenne, ogni giorno ci aiutava a girare, con dedizione e rispetto, i nostri ignobili cortometraggi, e la sera, per la stanchezza, si addormentava sul piatto. Faceva di tutto, ci aiutava nel comparto tecnico, ci spiegava i trucchi del mestiere, si caricava gli stativi sulle spalle. E non si rifiutava di apparire come attore: con il nostro gruppo di lavoro l’abbiamo diretto mentre rubava, con un ghigno malefico, gli strumenti musicali ai ragazzini del paese. Un uomo del genere tutto per noi, piccoli incoscienti che sperperano la propria energia in un’oscura, inspiegabile resistenza. Ma ci sta, non è sempre facile scegliere la lotta giusta. In fondo la resistenza è un dispositivo biologico, come la paura e la diffidenza, e in pochi riescono a usarla con cognizione. Anche perché spesso il nemico è mimetico e indossa la faccia amorevole di una madre.
Oggi ci siamo trovati al cospetto di un oggetto inclassificabile: Libera Me, del regista Alain Cavalier, portato in aula da un certo Egidio Eronico, un uomo pallido, con la barba incolta e gli occhi spiritati. E questo chi cazzo è?, ci siamo chiesti. Nessuno, solo il regista che ha diretto Charlton Heston nel suo ultimo film. E l’autore di quel gioiellino di Stesso Sangue. E un uomo in grado di parlare di Carmelo Bene con una competenza e una passione infinita. E il docente – sia maledetto per questo – che ci ha fatto conoscere un cineasta geniale e misconosciuto come Alain Cavalier.
Ma iniziamo dal principio, da quando Eronico entra in aula con in mano due vecchie VHS: tocca a noi decidere quale film vedere. Pensateci bene, dice, è una scelta importante. Scegliamo quello con il titolo che ci sembra più evocativo, appunto, Libera me (l’altro è Thérèse, sulla santa di Lisieux, Premio della giuria a Cannes nel 1986). Il videoregistratore inghiotte la cassetta, il nastro passa sui rulli. Sullo schermo appaiono delle scritte bianche su sfondo nero. Poi arriva il titolo, perentorio, nel silenzio più assoluto. Dies illa, dies irae, dice qualcuno alle mie spalle. E parte la sequenza del controllo dei passaporti, la fuga, lo sparo. Una dissolvenza in nero ci porta via dalla prima, folgorante sequenza.
La scena non ha dialoghi. Anzi, non ci sono dialoghi in tutto il film. Sono le immagini a portare avanti la narrazione, come è giusto che sia. Le parole, se non si è abili, diventano un’ingombrante sovrastruttura. In pochi riescono a farne a meno – il Kitano de Il silenzio sul mare, Kim Ki-duk in ogni suo film. In Libera Me a parlare sono i corpi, gli oggetti, il suono, la luce. In questo modo anche il più piccolo rumore diventa decisivo, quotidiano e sacrale allo stesso tempo. Come l’atto di tagliare il pane, che nel film si carica di una tensione indebita. Ma Cavalier va oltre: niente musica, macchina fissa, piani medi e stretti, riprese frontali, sfondi neutri, illuminazione minimale – solo tagli laterali, nessun controluce che stacca le figure dal fondale. È teatro filmato, esclama un compagno. Non è così, risponde Eronico, questo è cinema puro. Lo dice la focale usata, un teleobiettivo 200mm che permette il fuori fuoco, grazie al quale la profondità di campo è quasi del tutto annullata ma l’immagine è limpida, i primi piani cristallini. E i volti sembrano carcerati in una gabbia focale.
Libera me ha la potenza dell’Angelus di Millet, un dipinto che mostra solo due corpi, una carriola e una forcone piantato su un campo. Eppure ti rapisce. Ma nel film non c’è alcuna forzatura, nessun compiacimento romantico. È una pellicola che qualcuno potrebbe definire essenziale, carica invece di una densità difficile da replicare. È cinema puro, ripete Eronico, lo sottolinea l’utilizzo insistito del dettaglio – nature morte, tranci di corpi che sembrano oggetti dimenticati, strumenti che perdono la loro funzionalità e diventano pura astrazione. In Libera me avviene la sublimazione di ciò che diceva Buñuel a proposito di Umberto D. di De Sica: il triviale e l’accessorio non sono semplici riempitivi e vengono seguiti quasi con suspense. In questo modo ogni azione ci appare definitiva, non rimandabile, come quella di un condannato a morte. In die illa tremenda, sento dire nelle prime file di banchi. È cinema puro, insiste Eronico, lo conferma il mirabile utilizzo di ellissi narrative. Più che in altri autori, Cavalier – “amante dei volti, delle mani, degli oggetti” – vuole che lo spettatore ricostruisca le dinamiche dei personaggi come farebbe un operaio con i pezzi di una struttura. Personaggi che filma con pazienza mentre si vestono, si radono, mangiano, lavorano carne, controllano armi. E l’insistenza per la manualità non è un caso, visto che il regista ha cercato gli attori negli uffici di collocamento. Questo ci riporta al precedente lavoro: 24 Portraits, ritratti filmati di varie professioniste, che insieme a Thérèse è lo studio preparatorio per Libera me.
È chiaro fin da subito che i personaggi si muovono in un regime autoritario. Tra i civili è diffuso il traffico e la sedizione. Il fotografo e la compagna falsificano documenti e si fanno pagare con frammenti di vecchie fotografie, una parte delle quali, chissà perché, è già in loro possesso. Si spaccia la memoria, azzarda un compagno. Perché la memoria è eversiva. In una scena, un ragazzo che lavora nella trattoria dei genitori prende una manciata di sale e lo scioglie nel vino di una guardia – il rumore della mano che affonda nel contenitore mi ossessionerà per giorni. In quell’azione c’è tutto: rabbia, rivalsa, impotenza. Una bravata infantile che passerà in sordina, ma che il regime, di certo, non dimenticherà. Qualche sequenza dopo, infatti, il ragazzo pagherà tutto e a un prezzo molto caro. Dum veneris judicare saeculum per ignem, gracchia l’altoparlante sulle nostre teste. Il ragazzo, legato al palo e condannato alla fucilazione, si sente impotente, ma quando gli appuntano al cuore, come bersaglio, un cartoncino rosso ritrova l’orgoglio e gonfia il petto. E ti senti piccolo al suo confronto. Piccolo e misero. Poi l’inevitabile, atroce ellissi: il cartoncino, forato e macchiato del più tremendo dei colori, su un corpo disteso in una cassa di legno, che una volta richiusa viene segnata con un numero progressivo. Perché ce ne sono altre di casse. Decine, forse centinaia.
Tra di noi studenti c’è insofferenza, la radicalità della pellicola non perdona. E noto che è avvenuto un transfert sensoriale: quando sentiamo un rumore ci chiediamo se l’ha prodotto uno di noi o un personaggio del film. Mi arriva tra le mani un foglietto, sopra c’è scritto: ora vengono e ci portano via. Una compagna nasconde oggetti nelle tasche come se potessero comprometterla. Altri, tediati e impazienti come avessero le vesciche piene. Perché se non entri nel film, è chiaro, ti sfinisci, hai scatti d’ira. Calamitatis et miseriae, incide sul banco, con un taglierino, il compagno alla mia sinistra. Viene ucciso l’ufficiale che ha denunciato il ragazzo e inizia una sequela di vendette, torture, rappresaglie. Alcune immagini, dopo più di vent’anni, sono ancora ben radicate nella mia testa: il volto fiero e senza paura della ragazza che si fa carico del trasporto delle armi; lo straccio bagnato che viene battuto per terra, con violenza, alle spalle dell’uomo su cui poi graverà; i cittadini che emergono dalla massa sfocata per deporre i fiori sulle vittime; il cibo gettato per terra e avvicinato con una scarpa alla bocca di un recluso; il fratello del ragazzo, con i polsi slogati dalla tortura, che non riesce a tenere in mano un cucchiaio. Azioni e reazioni si alternano come tic senza controllo. La resistenza diventa cronica, cieca, spietata. Fino all’oscuro finale – da chi fuggono i cittadini dopo aver cosparso di sangue il funzionario? Da una bestia che potrebbe caricare? Dal buio affamato?
A fine visione siamo stremati. Per un’ora e sedici minuti siamo stati in una stanza anecoica dove uno spillo che cade fa il frastuono di un carico di ferraglia – ho come l’impressione di riuscire a percepire la pressione arteriosa del vicino di banco. E non ho alcuna voglia di dibattere, voglio solo buttarmi sul letto e guardare il soffitto per il resto della giornata. Ma una ragazza mi anticipa, si alza in piedi e comincia a parlare: «Quando si parla di resistenza si cade sempre nelle stesse trappole: la retorica o la derisione della retorica. Nessuno pensa mai al significato profondo di questa parola. La resistenza è il mantenimento di una struttura dall’assalto di un’azione distruttiva. È l’argine, la diga, l’anima di ferro del cemento armato. Se adesso mi do fuoco non voglio che mi si spenga. Prendete invece il mio corpo e usatelo per dare fuoco al mondo».
Appena la ragazza smette di parlare, la segretaria entra in aula. In mano ha una vecchia scatola, su uno dei lati c’è scritto Damnare me. Passa tra i banchi senza dire nulla, poggia la scatola sulla cattedra, apre il bordo superiore e vi tuffa dentro la mano. Quando la ritira su porta con sé quella che sembra una manciata di serpi. Sono bende, suggerisce il mio vicino di banco. E sorride. Mi raccomando, dice Eronico, una sola benda ciascuno – ha fatto bene a dirlo, altrimenti ci saremmo scannati. Che il compagno di sinistra bendi quello sulla destra, dice la segretaria. Una volta fatto veniamo messi in piedi e legati insieme con una lunga corda. Nessuno reagisce, nessuno chiede spiegazioni. In fondo sono qui per istruirci, pensiamo tutti. E poi siamo stati noi a scegliere il film, con chi dovremmo prendercela? Così, alla fine della lezione, veniamo portati via. Chissà dove, chissà per quanto. L’uno legato all’altro, indissolubilmente.
(Daniele Colantonio)