Non so come sono capitata a guardare Brooklyn 45. O, meglio, come sono finita a guardarlo lo so benissimo, perché è stata un’ordalia, nel senso che ho provato davvero a vederlo su piattaforme legali, ma quella della casa di produzione/distribuzione (Shudder) non è disponibile per l’Italia, e allora ho cercato di capire come accedervi, e ho fallito, e allora mi sono detta “Ma che cazzo, ma vaffanculo, io questo dannato film lo voglio vedere” e allora mi sono buttata sulla classica piattaforma illegale, e l’ho visto in inglese con sottotitoli per non udenti, e l’ho seguito benissimo (piccola nota personale: molte persone, tipo Emanuela Cocco, si demoralizzano quando sentono di materiale interessante in inglese, e io non capisco se sottovalutano la loro conoscenza dell’inglese o sopravvalutano la difficoltà dell’inglese medio. Il mio consiglio è: buttatevi, è molto meno peggio di quel che pensate, e il più delle volte ne vale la pena – fine della nota); quello che non so è come sia venuta a conoscenza dell’esistenza questo film, di quell’accenno della storia che mi ha letteralmente trapanato il cervello fino ad arrivare alla ricerca di cui vi ho parlato poc’anzi. Ma non importa, perché è un film bellissimo.
La trama è presto detta: come da titolo, siamo a Brooklyn e siamo nel 1945; un gruppo di vecchi compagni di guerra si riuniscono a casa di uno di loro, il colonnello Clive Hockstatter detto Hock, che tende a bere un po’ troppo e a deprimersi assai perché sua moglie Susan è morta. Di fatto, Susan si è suicidata perché era convinta che una loro vicina di casa di origini tedesche fosse una spia nazista e nessuno le ha creduto; Hock, quindi, decide di coinvolgere i suoi commilitoni in una seduta spiritica, nel disperato ultimo tentativo di mettersi in contatto con lei.
Andando a cercare commenti e recensioni su questo film (e vi consiglio di farlo solo DOPO averlo visto, perché i colpi di scena non mancano) mi sono imbattuta in riflessioni sulla paura del diverso, sulla paranoia, su chi sia il vero nazista, sulla magnificenza della messa in scena (tutto si svolge in una stanza e in tempo reale), sulle splendide prove degli attori (più che eccellenti, specialmente Larry Fassenden, interprete di Hock), sulla tensione che non cala di un secondo che sia uno e che è costruita quasi interamente sui dialoghi tra i protagonisti; tutto vero, tutto esatto, tutto splendido, ma quello che a me ha colpito di più è che raramente mi sono imbattuta in personaggi così rotti e così consapevoli del loro essere rotti come in questo film.
Uno scambio di battute ricorrenti è: “La guerra è finita”. “E chi lo dice?”, frasi che tutti i personaggi pronunciano Aalmeno una volta, chi con nostalgia, chi con disillusione, chi con terrore. Tra tutti, a me sono rimasti nel cuore Archibald Stanton, omosessuale accusato di aver commesso crimini di guerra, e la torturatrice cordiale ed empatica Marla Sheridan, pezzo da novanta inspiegabilmente (secondo i suoi commilitoni) innamorata di un burocrate corretto e tranquillo, completamente estraneo alla guerra e che può solamente guardare da lontano la palude mortifera ma ricca di significato in cui si barcamenano gli altri.
Perché tutti, che siano colpevoli, innocenti, brave persone o anime nere votate a un ideale che li ha annullati del tutto e che li ha resi incapaci di ritrovare la lucidità per andare avanti, sono in un momento di stallo, incapaci di muoversi, impantanati tra quello che è stato, quello che avrebbe dovuto essere, legami di amicizia e lealtà che non sono quello che sembrano, manipolazioni, distorsioni e perversioni del senso del dovere e della propria identità.
Di fatto, esattamente come accade nel film, il denominatore di queste vite è l’inazione, l’immobilità, lo smarrimento, l’illusione di essere usciti da un qualcosa che talvolta non si riesce a guardare in faccia; e allora si parla, si rievoca, si discute, si danno ordini e li si eseguono, ma tutto è rinchiuso in una stanza, tutto è rinchiuso nella testa, fuori è un’altra cosa, un’altra notte, un altro mondo: fuori è la realtà dei fatti, dove gli spettri non trovano posto, dove bisogna confrontarsi con i vivi, ma dove si può finalmente riprendere a vivere.
Nel vero senso della parola.
Chiara Lecito