Un attimo dopo Alice fu al di là del vetro e con un saltino entrò nella stanza dello Specchio
Lewis Carroll, Al di là dello specchio (e quel che Alice vi trovò)L’assunzione giubilatoria della propria immagine speculare da parte di quell’essere ancora immerso nell’impotenza motrice e nella dipendenza dal nutrimento che è il bambino in questo stadio infans, ci sembra perciò manifestare in una situazione esemplare la matrice simbolica in cui l’io si precipita in una forma primordiale, prima di oggettivarsi nella dialettica dell’identificazione con l’altro, e prima che il linguaggio gli restituisca nell’universale la sua funzione di soggetto.
Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io
Chi l’avrebbe detto che sarei finito a fare lo psicologo quando solcai l’ingresso polveroso dell’Accademia Nazionale Navale degli Stati Uniti? Non l’avrebbe detto mia madre, che versò copiosi lucciconi quando la nave salpò dal porto; né mio padre, fumatore incallito che il giorno del mio addio non riuscì a fumare neanche una sigaretta; né mio fratello maggiore, un esperto rapinatore che rapinò soltanto una povera vecchiaccia; né mio fratello minore che si prese una vacanza dalla sua depressione e divenne ipocondriaco; né mio nonno (sì, siamo una famiglia numerosa) che non disse una parola, né tantomeno la nonna che salutò con gioia la mia partenza perché, vecchia volpe, significava per lei il dominio incontrastato in salotto e il totale controllo della TV. Né mio zio paterno…
Ma comunque quelli sono tempi lontani. Per riassumere: tempi finiti. Ora mi guadagno da vivere come psicologo. E chi l’avrebbe detto? Non l’avrebbe detto mio madre, sicuramente. E nemmeno mio padre.
Anche perché, ma questo loro non lo sanno né potrei dirglielo apertamente, sono uno psicologo singolare, sì: sono uno psicologo che aiuta i criminali in difficoltà e tutti coloro che, avviata una florida carriera criminale, non sanno più come condurre i propri affari. Ho una discreta esperienza anche coi criminali in preda di una crisi di mezz’età che vogliono cambiare lavoro e devono così reinventarsi una professione e una vita.
Il mio nuovo cliente era un certo Mario L., vecchio gangster di Los Angeles e stimato produttore di formaggi. Gli affari, la politica e il gangsterismo, si sa, sono una cosa sola.
“Vedi, Frank”, mi disse “Ho una riunione importante oggi, mi capisti? Oggi si riunisce tutta la mia Famiglia per decidere se uccidere o non uccidere il vecchio topo Gonzales. Lo so che bisognerebbe riservare una sorta migliore ai nemici di lunga data, ma mi capisti no? Non posso apparire troppo debole, però non sento più il fuoco di una volta”.
“Certo, Mario, nessuno ti capisce meglio di me, lo sai. I miei figli hanno il tuo sangue nelle vene”. Avevo sposato le sue due figlie gemelle ed ero diventato psicologo per condurre il menàge.
“La decisione, Frank, non spetta a me. Io ormai sono una figura di cera, convocata lì per spaventare le famiglie dei topi. E’ mio nipote Vito a tenere la famiglia per i coglioni”. E fece il gesto di uno che stritolava un’arancia nel pugno. “Ma se farò una buona impressione, potrò evitare a Gonzales una fine indegna. Mio nipote è un sanguinario, Frank. Odia tutti gli insetti e soprattutto i topi”.
“Mario, i topi sono mammiferi, non insetti”. “E che ho detto io, Frank? Ho detto mammiferi” “No, Mario, hai detto insetti”. “Ho detto insetti, no? E che sono i topi, sono insetti!”.
“Va bene, Mario, se vuoi che siano insetti saranno insetti.” Respirai provando a concentrarmi. “Vuoi che ti racconti la storia della mano destra e della sinistra?”
“Oh, sì, ti prego Frank, raccontala”.
“Allora la vedi questa mano? Questa è la mano sinistra Hate, Odio. Fu con questa mano che il malvagio Caino vibrò il colpo che uccise Abele”.
“Love, Amore, vedete questa mano miei cari?”
“Con chi stai parlando Frank, ci siamo solo noi qui, in questo stanzino”.
“Mario, si fa per dire, non interrompermi!”
“Ok, Frank, scusami”.
“Allora, dicevo… Love, Amore, vedete questa mano miei cari? Questa mano rappresenta la parte buona dell’uomo. La storia dell’umanità è la storia della lotta tra queste due mani”.
“Oh oh oh!” Frank si era seduto e dondolava tenendo le mani sui ginocchi.
“Che si fa il teatrino?” Frank mi guardò preoccupato. Gli feci segno strizzando l’occhio sinistro. Capì.
“Hai una bella faccia sveglia” disse.
“Sì, me lo dice anche la mamma”. Mario si alzò di scatto.
“Quello è un dritto, ecco che cos’è” urlò.
“Lo immaginavo”.
“Perché non dici prima quello che immagini?” Mario incalzava.
“Se le sembro un genitore un po’ cinico, signor Marlowe, è perché la mia vita è ridotta a troppa cosa cosa per consolarmi con ipocrisie vittoriane”.
Così, come convenuto da tempo, risposi:
“Venga nel mio boudoir. Il mio è un lavoro che frutta poco se sei onesto”.
Eravamo pronti ad abbandonare lo stanzino delle scope dove si svolgevano i riscaldamenti al buio, rigorosamente al buio. Era parte della terapia. Entrammo nella mia stanza, un cubo che puzzava d’umido e marijuana. Mario sapeva che fumavo spinelli per restare concentrato ed entrare nella pelle dei personaggi. Aveva trafficato per anni con ogni tipo di droga, eppure, come capita spesso negli ambienti mafiosi, rifiutava decisamente ogni possibile offerta. Gli offrii un tiro di spinello e rifiutò. “Roba da messicani” aggiunse.
Il mio boudoir era una stanza semplice; c’era una vecchia poltrona con lo schienale alto, un tavolino di ferro con tre piedi e un enorme posacenere di cristallo che smisuratamente occupava quasi tutta la superficie del tavolino. In un angolo, un telefono a disco, a terra. Le pareti tendevano al verde limone acerbo, i battiscopa bianchi, ora erano giallo crema. Era il luogo in cui curavo i criminali, ma soprattutto era la stanza dello Specchio Magico. Mario lo sapeva, l’aveva letto sui migliori magazine di psicologia. Mi ero fatto un nome, ero ben conosciuto nell’ambiente.
“Giochiamo allo Specchio Magico?” mi chiese Mario eccitato. “Aspetta Mario” gli dissi “non avere fretta. Ricorda che prima devi travestirti.”
Gli diedi un borsalino nero, un impeccabile completo di tweed, scarpe di pelle nera e una cintura in pelle di coccodrillo così lucida da rifrangere la luce emanata dalla lampadina anemica pendente dal soffitto come uno specchio in una calda mattina d’agosto a Taranto. Mario andò in bagno a vestirsi e usai il telefono di servizio per comunicare con il mio segretario, un esserino cui ero affezionato e che, al contempo, mi riusciva del tutto insignificante. Era così spaurito, intimorito dalla vita e dalla presenza altrui che non riuscivo a ricordarmi ancora il suo nome, dopo dodici anni di fedele servizio. Lo chiamavo Coso.
“Coso, vieni subito e stampami il testo del file che ti ho inviato stanotte”. Mettevo alla prova la sua fedeltà molestandolo a qualsiasi ora della notte, come Maria Giuseppa nel famoso racconto di Tommaso Landolfi. Speravo prima o poi esplodesse e mi mandasse a quel paese. O che impazzisse e trucidasse un neonato. Ma questo, per virtù sua oppure per difetto di forza mia, non accadeva mai e così questa tortura andava avanti da tempo. “Coso, hai sentito? Vieni subito qui e portami il testo del file che ti ho inviato stanotte!”. Nessuna risposta dall’altro lato. “Coso! Coso, mi senti?”. “Frank…” disse una vocina flebile. Quando attaccai l’orecchio al telefono non sentivo nota che testimoniasse una qualche presenza umana. “Frank…”. Questa volta, se possibile, la voce era ancora più flebile. Ero sicuro che non proveniva dall’estremità del telefono che stringevo nella mano sinistra. Coso era alle mie spalle. Me ne accorsi quando una mosca interruppe il suo ronzio atterrando sul suo nasone. Mi girai e lo trovai lì, arrossito, con le scarpine da ginnastica che indossava per non fare rumore e con quei piedini con cui zampettava ovunque, a destra a sinistra, su e giù. Tra le mani aperte a fisarmonica aveva un malloppo di pagine su cui svettava un biglietto cartonato con la scritta CONVERSAZIONI. Spinse il malloppo verso il mio petto. Guardai il malloppo, glielo strappai dalle mani e gli intimai di andarsene. Sussurrò qualche parola di scusa e, quando alzai lo sguardo dalle pagine, era già sparito. Controllai che Coso avesse stampato tutto e finii lo spinello che avevo lasciato nel posacenere di cristallo.
Mario entrò preceduto dallo gnaulìo delle scarpe di vernice, irriconoscibile. Misi mano alla pistola ad acqua, ma quando si scappellò lo riconobbi subito e capii che non c’era bisogno delle maniere forti. Adesso iniziava la terapia con lo Specchio Magico.
Lo Specchio, questo era il segreto del suo funzionamento, non aggiungeva niente di sostanziale all’immagine che il mio cliente aveva di sé. Capitava, però, che i più fortunati, quelli che entravano in una eccezionale sintonia con lo Specchio, riuscissero come in trance a passarvi attraverso e ne ritornavano, dopo pochi minuti, completamente trasformati. I clienti raccontavano di incredibili viaggi a ritroso fino alla prima infanzia o irresistibili proiezioni nel futuro; raccontavano di aver combattuto la battaglia di Cheronea con le truppe di Filippo il Macedone, di aver sorvolato il pianeta e la casa natale, di aver giocato a scacchi con Snoopy e di aver letto la mente della regina Elisabetta. Ma ciò che più importa, ritornavano con una rinnovata consapevolezza della propria identità smarrita e ciò accadeva non senza improvvise sorprese. Io stesso avevo deciso di diventare psicologo dopo aver attraversato lo Specchio Magico, dono di un ricco commerciante di Aversa.
Si guardava allo Specchio, Mario, ammirando i suoi nuovi vestiti.
“Sembrò un cafone vestito così” disse.
“Mario, non preoccuparti, sta’ zitto e fidati di me” risposi “E, soprattutto, non distogliere lo sguardo dallo specchio”. Mario per un attimo usò uno dei suoi vecchi sguardi da gangster, obbligandomi a mettere mano alla fondina di vetro dove avevo la mia pistola ad acqua. Il grugno mafioso si convertì in sorriso e mi rilassai. Lui tornò a guardarsi allo specchio. Dopo pochi istanti di silenzio, notai un nuovo luccichio nei suoi occhi, prima invero spenti occhi di un mammifero attempato e stanco, ora rinnovati a guisa di gangster in carriera. Mi lanciai sulle pagine delle conversazioni e cominciammo a scambiarci le battute. Era importante che nessuno sbagliasse una battuta affinché si potesse attraversare lo specchio e farlo col massimo beneficio e col minimo rischio.
***
“Come va? Molto lavoro?” chiesi
“Infortunio doppia indennità” rispose Mario
“Sei stato bravo. All’inizio hai detto niente infortunio”.
“Anche troppo.”
Si iniziava bene. Eravamo affiatati.
“C’è un gran casino. Con il caldo che fa tra poco la gente se ne infischierà di tutte le regole”
“Senti, dimmi una cosa Shelley, una cosa sola? Perché hai accettato di sposarmi?”
“Buffo come? Che c’è di buffo”
“Visto? È come dicevo io, troia del cazzo”
“A quanto ricordo anche tu parlavi solennemente della ricchezza in cui avremmo nuotato, di un magnifico appartamento di lusso e di almeno tre o quattro macchine in garage”.
“Sono su di giri”.
“Bisognerebbe controllare il motore”
“Vai piano caro, abbiamo tempo!”
Gli feci un cenno col capo. Era una battuta, non potevamo fermarci. Mario esitò un istante, lo Specchio brillò.
“Io non mi vanto di quello che ho”
“Bada, non è che ci tenga a queste cose finché posso disporre di un bell’omaccione fascinoso come te”.
“Io ero un uomo come ce ne sono tanti…comunque non mi sentivo soddisfatto. Eppure, potevo considerarmi fortunato.”
“Chiudi la bocca, non voglio sentire neanche una cazzo di parola”.
Qui Mario esitò di nuovo. Perse il contatto visivo con la propria immagine allo Specchio che emise un sinistro, basso lamento da clavicembalo strozzato.
“Suonavo il piano dalle 8 all’orario di chiusura, non andavo a dormire mai prima delle 4 mattino” dissi.
“Suonavo il piano dalle 8 all’orario di chiusura, non andavo a dormire mai prima…”
“Mario, avanti! Suonavo il piano dalle 8 all’orario…”. Mario era in trance, guardava lo Specchio con un filo di bava ai lati delle labbra come un officiante di un rito vudù. Il gangster allo specchio era il suo loa. Un attimo dopo varcò lo Specchio e sparì.
***
Ritornò un’ora prima della riunione con la Famiglia. Nella disperazione, avevo fatto le valigie e prenotato un aereo per Parigi; ero pronto a lasciare il paese. Mario sembrava di vent’anni più giovane. Con gesti sicuri e compassati si tolse il cappello nero e si pettinò con cura i capelli. Mi chiese di chiudergli uno spinello e fumammo in silenzio.
“Accompagnami in un negozio di giocattoli” mi disse. “Che ti salta in mente, Mario?” Lo guardai senza troppa convinzione. “Andiamo e non fare troppe domande. Non ho alcuna voglia di parlare”. La terapia aveva funzionato. Gli avrei chiesto di compilare le solite scale psicometriche, di scrivere un breve resoconto del viaggio nel regno dello Specchio, avrei incassato il denaro e me ne sarei andato in vacanza. Girammo in auto per un po’, Mario non riusciva a staccare lo sguardo dallo specchietto retrovisore inclinato in modo da inquadrare il suo volto. Si incantava a guardarsi e non prestava alcuna attenzione alla guida. “Mario, accidenti, a cosa stai pensando? Hai quasi investito due foche che attraversavano la strada sulle strisce pedonali”. Mario non rispondeva, chissà in quali pensieri assorto.
Si fermò davanti a un enorme edificio che mi ricordò subito l’ex edificio della Hanna-Barbera al 3400 Cahuenga Boulevard West a Hollywood. Un casermone basso e rettangolare da cui proveniva l’odore acre e pungente delle fibre sintetiche dei peluche. Mario abbassò il finestrino e annusò l’aria a pieni polmoni.
“Aspettami qui, non ci vorrà molto”. Nell’attesa, rollai uno spinello e spruzzai getti d’acqua con la mia pistola trasparente a due bambine bionde che passarono accanto all’auto, sicuro di non essere visto.
Mario ritornò con una folta schiera di peluche che sistemò sui sedili posteriori, una mezza dozzina di ragni di ogni colore e dimensione. C’era un ragnetto rosso che ribattezzai subito Ugo, così brutto da sembrare una cimice. “Non è una cimice, è un ragno!” rispose Mario. Tirò fuori la pistola e impiombò tutti i peluche, l’abitacolo si riempì di fumo e tristezza. Li scaricò tutti nel vasto parcheggio antistante l’edificio, fuorché la piccola cimice.
Non feci domande.
Il sinistro sole autunnale sembrava annunciare un’imminente tragedia. Ci fermammo in un negozio di cravatte napoletane, Mario senza pensarci troppo chiese una cravatta gialla con esedre verdi, la provò e, guardandosi allo specchio, pareva piuttosto soddisfatto. Mi lasciò allo stazionamento dei taxi.
“Risolvi i problemi che hai con tua madre, così la smetterai di indossare queste oscene scarpe col tacco” mi disse prima di andare via.
Capitan Gatto
I brani della conversazione davanti allo Specchio sono tratti da:
Double Indemnity (1944) di Billy Wilder
Detour (1945) di Edgar G. Ulmer
The Big Sleep (1946) di Howard Hawks
The Killing (1956) di Stanley Kubrick
The Long Goodbye (1973) di Robert Altman
Body Heat (1981) di Lawrence Kasdan
Bellissimo!
Grazie!