Prima di iniziare a scrivere quello che state leggendo sono andata a trovare mia madre. Le ho detto: Occhi senza volto, mamma, te lo ricordi? Ricordi che lo abbiamo visto insieme?
Perché ricordo questo: che era estate, eravamo noi quattro, noi soltanto, io, mia madre, le mie due sorelle, sedute in cucina davanti al televisore acceso. Perché eravamo solo noi? Mio padre era in Africa, me lo ha detto lui quando sono andata a trovarli, era lì con la sua squadra, a fare il carpentiere in un grande cantiere, chissà dove di preciso. Era via da mesi, io mi ero ripromessa, questo non l’ho mai confessato o capito, di fare finta di non riconoscerlo quando lo avessi rivisto. Quindi eravamo solo noi, era estate, una sera, eravamo in cucina, la cucina stretta, la finestra aperta, senza tende, le sedie disposte in due file per starci tutti: mia madre e mia sorella maggiore sedute dietro, io e la più piccola davanti. Ricordo bene: tenevo gli occhi incollati allo schermo, dicevo loro: silenzio, state zitte.
Sono lì, tutto è nitido. Ho sei anni, voglio guardare il film, probabilmente ho letto su uno di quei giornaletti dei programmi televisivi questo titolo promettente, mi aspetto uno di quei film che piacciono a me, uno di quei film a cui do sempre la caccia: nero, o giallo, un film dell’orrore o investigativo, pieno di quelle cose che ho sempre desiderato fin da piccola e che poi ho continuato a desiderare: il mistero, l’attesa, qualcosa da capire, qualcosa che catturi la mente, fosse anche una sensazione di minaccia, qualcosa da cui stare alla larga, da vivisezionare, se serve. Sono piccola ma vivo un grande momento, non lo dimenticherò mai più. Questa storia è la mia storia, l’amerò più di tutte le altre, amerò la strana sensazione di avere davanti qualcuno che mi somiglia, ma che viene da lontano, da molto lontano. Proprio quello che dice Christiane quando si guarda allo specchio e scruta il suo viso dopo l’intervento chirurgico che dovrebbe restituirle la bellezza perduta. Christiane Genessier, la protagonista del film, la figlia del grande chirurgo Genessier, uomo ambizioso e folle, a quel punto è già il fantasma di sé stessa, e lo sa.
Christiane: la bella rimasta sfregiata in un incidente stradale in cui il padre era alla guida, la ragazza dichiarata morta, anche se è viva, perché non ha più un volto, a cui il padre vuole ridare un volto, rubandolo alle altre ragazze, che diventeranno le sue vittime. Christiane e i suoi occhi senza volto, che gira per casa indossando una maschera bianca, una maschera che le cancella i lineamenti, che comunque, sotto, non ci sono più. Christiane al posto della faccia ha una piaga orrenda, che non vedremo mai nell’interezza del suo orrore. Christiane Genessier: il fantasma che alza la cornetta del telefono per sentire la voce del ragazzo che ama, ma che resta in silenzio e non riesce a parlare, la vittima, la testimone compassionevole, ferita a morte dall’urlo di terrore delle sue vittime. Che cosa ha a che fare con me? Perché la sento così vicina? Perché se ora torno a quella sera, ricordo così bene, so con esattezza, che non potevo smettere di guardarla e che la sentivo parte di me, simile a me? Alle domande a cui non si sa, non si può, rispondere, si replica con il desiderio. Le domande per le quali non abbiamo una risposta sono inestinguibili, il loro fascino non muore, tornano a visitarci, diventano il nostro fantasma. Questo è stata da subito per me Christiane Genessier, da quando l’ho incontrata in un film di Franju.
Anche in seguito, negli anni che separano il momento in cui inizio a scrivere di Occhi senza volto dalla me bambina di sei anni che fissa il volto magnetico di Christiane, interpretata dall’indimenticabile Edith Scob, il suo ricordo mi perseguiterà. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che tornare a lei con il pensiero, tornare a Christiane, al ricordo dell’esangue fanciulla non morta e non viva, al suo volto coperto della maschera eppure nudo, con indosso solo quegli occhi enormi e vuoti, desertificati dal dolore. Negli anni che verranno cercherò il film ovunque, un film mai più rivisto, che però ricorderò alla perfezione: titolo, trama, protagonisti e qualcosa che allora non sapevo nominare ma che era una marca distintiva che da subito avevo apposto sull’opera, qualcosa che aveva a che fare con lo stile, il talento, indicativo di un valore eccezionale che da subito in modo istintivo avevo accordato alla pellicola.
Io che andavo a caccia di incubi cinematografici: qualcosa che somiglia molto alle vette più alte della mia felicità familiare durante l’infanzia. Mi veniva permesso di guardare quei film, ne vedevo tanti, e in mezzo a quelle storie di arti amputati, di statuine inquietanti, maschere della morte, urla, raccapriccio e buio, scale a chiocciola e lame rilucenti rosso rubino, c’erano mischiati paccottiglia orrorifica e grande cinema. Quando potevo entrare nella zona oscura io ero a casa. Una moltitudine di mostruose visioni cinematografiche mi faceva stare bene. Ma so, con assoluta certezza, che Occhi senza volto è stato l’esatto, memorabile, punto di attraversamento in cui ho visto coincidere l’orrore e il sublime cinematografico.
Ora potrei dire cose del film di Franju che allora non avrei potuto sapere. Potrei commentare la magistrale sequenza di apertura in cui la gelida Alida Valli, alla guida della sua auto, attraversa le vie di Parigi con tanto di cadavere caricato sui sedili posteriori, e dire che questa sequenza trova degli interessanti punti di contatto con un’altra, altrettanto celebre, che vede Janet Leigh alla guida della sua auto, mentre si allontana dalla città portandosi dietro i 40.000 dollari sottratti all’agenzia per cui lavora in Psyco di Hitchcock. Oppure potrei soffermarmi sull’importanza del fuori campo nell’evocazione dell’orrore in questo film, o dilungarmi sulla superba fotografia di Eugen Schüfftan, che immerge la pellicola in una atmosfera da espressionismo tedesco che mi fa pensare anche al cinema di Pabst, e al noir, incarnato nella statuaria femmina folle Louise, la deplorevole assassina assistente del dottor Genessier, interpretata da Alida Valli.
E poi, potrebbe interessare a qualcuno parlare del fantastico, o meglio, dell’assenza del fantastico, in questo film, dell’incursione del surrealismo nelle immagini finali. O dei dilemmi morali messi in gioco nel film, dello statuto antieroico della protagonista che prima acconsente a veder strappare (letteralmente) la faccia a un’altra ragazza, nella speranza di vedersi restituire la sua bellezza perduta, e che dopo, solo dopo l’ennesimo scacco ai suoi desideri, si scuote dall’apatia il tanto che basta per decidere di schierarsi dalla parte delle vittime e sacrificare sé stessa per liberarle. Oppure, e potrei continuare, dovrei dire dei meccanismi complicati di identificazione dello spettatore con i personaggi che questo film mette in campo. Una storia in cui il pubblico è lasciato solo con il suo dolore, e con il dolore della vittima, chiuso in un incubo insieme a due assassini imperturbabili e una testimone complice ormai disincarnata, ma pervaso, grazie alla bellissima colonna sonora di Maurice Jarre, di una atmosfera gotica e romantica.
Les Yeux sans visage è un film sofisticato, che interpella lo spettatore in modo ambiguo, costringendolo a relazionarsi con una protagonista caratterizzata in modo ambiguo e contraddittorio, un personaggio tragico e romantico, una ragazza innamorata che dispera di rivedere mai più l’uomo che ama, una principessa triste, vittima della terribile hybris paterna, ma che è anche una complice del suo stesso carnefice, la prima beneficiaria degli orrendi omicidi da lui compiuti, e, quindi, una vile ignava e ingiustificabile, un’abietta creatura che non possiamo fare altro che condannare per la sua speranza di tornare a vivere grazie al suo nuovo volto, che lei sa essere stato strappato a un innocente.
Questo è Occhi senza volto, un film di Georges Franju, un’ossessione ricorrente, un ricordo estatico della mia infanzia. Così torno a chiedere a mia madre: te lo ricordi? Cosa dicevo di questo film, ricordi almeno una frase, una sola, cosa dicevo di preciso di questo film? Ma mia madre non lo ricorda, neanche una parola. Mia sorella maggiore, ho domandato anche lei, dice che io ero in pena per Christiane, che continuavo a dire che Christiane mi faceva pena, tanta pena. Tutto qui.
Occhi senza volto: una delle più importanti esperienze estetiche della mia vita, di certo la prima di cui io abbia memoria, e non ci sono testimoni attendibili che possano aiutarmi.
I soli ricordi che restano sono i miei, non gli spunti di analisi a posteriori, non la minuziosa descrizione di una sequenza, frammento dopo frammento, come avrebbe potuto farla il critico francese, e memorabile analista cinematografico, Raymond Bellour, ma solo i ricordi del film visto quando ero una bambina.
Questi:
Christiane che si aggira negli scantinati dove il padre e la sua assistente hanno incarcerato una ragazza. Il lettino di contenzione su cui la vittima giace addormentata. Christiane si toglie la maschera, le si avvicina, e le accarezza il viso. Vede nel viso della ragazza tutto quello che lei vorrebbe avere, tutto quello che vorrebbe essere. La accarezza e forse, per un attimo, è tentata di rinunciare a tutto e di liberarla, di non partecipare a quell’abominio e di fare la cosa giusta. Ma la ragazza si sveglia e la vede. Vede il suo orribile volto piagato, il volto orrendo, ma sfumato e indistinto, che ci viene mostrato in soggettiva della vittima, che è stata sedata. La ragazza vede il vero volto di Christiane e urla terrorizzata, e allora lei si allontana, spaventata, ferita, dalla reazione che ha suscitato. Si allontana dalla ragazza e la lascia lì, legata sul lettino, consapevole che questo la condannerà a vivere un orrore inimmaginabile e, forse, anche alla morte. Mentre Christiane si allontana noi vediamo il suo volto come immerso in una pozza di buio, un volto del quale possiamo scorgere i tratti ma in modo impreciso, un volto indefinito, piagato dalla vergogna. Ora che ho rivisto il film ho capito il perché di questa associazione che viene dall’infanzia, il perché quel volto sfigurato, ma non perfettamente visibile, mi sembrasse così ferito, ma anche pieno di vergogna e disumanizzato, reso simile a quello di un animale. Ora, rivedendo la scena, so che il movimento di Christiane che arretra verso il buio è accompagnato dal suono del guaito di un cane, uno dei cani che il chirurgo Genessier tiene segregati nello scantinato, una delle cavie di cui è solito servirsi per i suoi esperimenti. Ora, ho capito che in quella scena Christiane, anche lei destinata a diventare niente di più che una cavia a servizio delle sperimentazioni del folle e ambizioso padre, è stata privata della sua umanità, perché è il nostro volto a renderci umani a far sì che possiamo riconoscerci come tali. Christiane un volto non lo ha più, ed è per questo che lei, leggendo sé stessa nello sguardo dell’altra, prova vergogna.
E poi un altro ricordo: ancora Christiane, dopo l’intervento. Tutto sembra possibile e lei ha avuto indietro la sua bellezza, ma poi c’è il rigetto, la pelle della ragazza inizia a imputridire e sul suo volto appaiono in rapida sequenza prima segni leggeri poi profonde cicatrici. Franju ci mostra in progressione il disfacimento del volto di Christiane, ma si ferma un attimo prima. Fuori campo la voce del chirurgo Genessier commenta in tono asettico il suo spaventoso fallimento, fino alla terribile sentenza: “Il frammento innestato deve essere rimosso.” Restano solo le parole con la loro carica spaventosa. L’immagine si arresta su questo presagio di disfacimento completo. Come si presenta il vero volto di Christiane senza l’innesto della pelle di un’altra? Cosa si nasconde dietro la maschera che le abbiamo visto portare e alla quale lei è nuovamente destinata? Com’è questo volto distrutto, ricoperto di escrescenze e con la pelle più ruvida di una corteccia, del quale si lamenta Christiane tra le lacrime dopo aver scoperto che anche l’ultimo intervento a cui si è sottoposta è andato fallito? Non lo sapremo mai, Franju non ce lo mostrerà in modo diretto. Rivedremo Christiane in scena con indosso la maschera bianca, più spaventosa per lei della sua stessa deformità, e sapremo che per lei tutto è perduto. Questa paura così grande, questa ferita insanabile che Franju sceglie di lasciare nel fuori campo, proprio per questa sua scelta resterà con me così a lungo.
E alla fine, è arrivato il momento di salutarci, alla fine l’ultimo ricordo è ancora Christiane, ormai sola, assente, distaccata da tutto. Per lei ora la compassione è una completa dimenticanza di sé. Christiane, ora, non è più. Esistono gli altri, la loro liberazione è l’ultimo atto della sua storia. Vediamo Christiane muoversi come un automa verso una ragazza, la nuova vittima legata anche lei al lettino della sala operatoria nei sotterranei di casa Genessier, pronta per essere sfregiata dal bisturi di suo padre, bisturi che Christiane usa per liberarla. Senza nessuna partecipazione emotiva, quasi con noncuranza, lei taglierà i legacci che la tengono costretta e la lascerà fuggire, con la stessa noncuranza colpirà a morte Louise, la diabolica assistente paterna, e poi aprirà, una dopo l’altra, le gabbie dei cani imprigionati nei sotterranei, lasciandoli liberi di avventarsi contro suo padre, dilaniandolo a morte. Quando tutto è compiuto Christiane spalanca una gabbia in cui sono rinchiuse le bianche colombe, che sbattendo le ali attorno al suo capo si alzano in volo, poi si dirige verso il bosco, e avanzando rigidamente, come una statua di marmo che in virtù di qualche strano sortilegio, può muove i suoi passi rigidi e incerti incontro alla notte, si dilegua nel buio, in compagnia di un’unica colomba, che ha scelto di seguirla.
La vergogna, il fuori campo, la compassione. I miei ricordi indelebili di questo film di Franju. Dopo tutto sarà una ricerca sullo schermo, nei libri, di qualcosa che si avvicini alla percezione di questa composizione così nitida eppure indefinita, a questa cura dello spazio a questo raccontare attraverso i vuoti a questa abdicazione totale alla pretesta di dire tutto.
(Emanuela Cocco)