Nei miei anni più giovani e vulnerabili anche mio padre mi diede un consiglio che non ho mai dimenticato.
No, non si trattava di un consiglio mite come quello che viene dato a Nick Carraway, il vicino di casa di Gatsby, nel grande romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Mio padre mi disse, invece, forse in modo imprudente: “Ricorda che quando ti batti non importa quanto sei forte, importa non avere paura.”
Io, che allora ero un’adolescente non troppo alta, magrissima, una specie di fantino irascibile con un’idea della giustizia che lambiva pericolosamente quella della vendetta, presi il consiglio alla lettera e da quel momento smisi di avere paura e di evitare lo scontro.
Se mi veniva fatto un torto, senza pensare ai miei polsi sottoli, o ai muscoli inesistenti, esigevo un equo risarcimento. Covavo rancori, fantasie di vendetta, ero irrazionale e megalomane, pretendevo, in un modo o nell’altro, di regolare i conti con la vita e di farlo a modo mio. In poche parole: facevo spesso a botte.
Ma c’erano cose, per chiunque ci sono cose del genere, per le quali non esiste un risarcimento possibile, delle quali in nessun caso è possibile vendicarsi, cose che sfuggono alla triste contabilità della legge del taglione, torti subiti dalla vita per i quali è impensabile riuscire a individuare con certezza un responsabile che non sia la vita stessa. E in quel caso che si fa? Si impara a convivere con questa consapevolezza, magari si arriva anche a capire che la vendetta non potrà mai essere una vera riparazione, oppure questo desiderio di vendetta diventa dominante e la vita ha come scopo quello di autodistruggersi perché è in lei, in questa vita in cui a volte va tutto storto, che è racchiuso tutto quello si ama, tutto quello da cui si viene feriti a morte quando quello che ami ti viene portato via.
Ora, mentre vi scrivo, non sono sicura di aver completamente abbandonato il piglio bellicoso nei confronti della vita, ma allora, quando vidi per la prima volta il film di cui sto per parlarvi dopo questo lungo preambolo, ebbi la chiara sensazione di aver trovato il mio super eroe, un vendicatore inflessibile, melodrammatico ed eccessivo, qualcuno che avrebbe dato vita a una delle più sontuose vendette mai viste sullo schermo: L’abominevole dr Phibes, che però per me era adorabile.
VOCE INCEPPATA
Nel film arriverà molto tardi, ma è al primo posto nei miei ricordi: la voce doppiata in italiano, la voce inceppata, innaturale, la voce ricreata meccanicamente di Anton Phibes, il protagonista della storia, un medico, ma anche un organista, un vedovo rimasto sfigurato e da tutti creduto morto in seguito a un terribile incidente stradale, avvenuto mentre cercava di raggiungere l’ospedale in cui era ricoverata, in fin di vita, la moglie.
Siamo in Gran Bretagna agli inizi degli anni venti. Phibes, con il volto sfigurato, indossa una maschera in lattice ed è seduto davanti al ritratto della moglie Vittoria Regina, una splendida donna dai capelli corvini, morta in sala operatoria. Con l’aiuto di un sintetitezzatore vocale (il jack dell’apparecchio inserito direttamente nella gola) Phibes declama, solenne e meccanico, parole d’amore e ci dà notizia del semplice innesco che tiene in piedi la storia: una vendetta, nove omicidi. “Nove eternità per la tua”, promette Phibes a Victoria Regina.
VENDETTA
Chi ha colpa della morte di Vittoria Regina? Chi è il responsabile della distruzione del viso di Phibes? Nessuno, o meglio, solo la vita: quell’orco mostruoso di cui, lo diceva già Edgar Lee Master in una delle poesie della sua “Antologia di Spoon River”, non ci si può vendicare. Nessuno è colpevole, ma Phibes, senza un volto, senza più un cuore, e che non ha paura di nulla, dichiara guerra ai nove, tra medici e infermieri, che hanno presenziato all’intervento fatale. “Nove l’hanno uccisa e nove periranno” è il suo motto. Nove eternità, nove vite verranno spezzate per risarcire quella della donna amata. Solo allora, promette Phibes a Vittoria Regina, i due amanti potranno avere pace, ricongiungendosi in “un empireo che avrà bisogno solo di noi due per esistere.”
Nove l’hanno uccisa e nove periranno. Non importa se sono colpevoli oppure no, non importa quanto verrà a costarmi, non importa, non mi importa, sembra ripeterci il Dr Phibes per tutto il film: così vuole il mio cuore, così esigono le mie ferite. Nove l’hanno uccisa, nove periranno. Un’ottusa feroce pretesa di giustizia privata, di affrancamento dalla propria vulnerabilità, è contenuta in questo motto, una pericolosa totale indulgenza alla propria ira. Così, posso dire, era la mia collera di allora, così ero io quando insistevo per battermi, impersonando un personaggio inflessibile che a tutti i costi sarebbe stato risarcito per i torti subiti.
Per me L’abominevole Dr Phibes è prima di tutto questa voce che proviene da dentro, un luogo a volte impenetrabile, abitato dalla parte di noi che ama vendicarsi, che prova piacere nell’immaginare una violenta rivalsa, un luogo che allora non avevo ancora sondato a dovere, ai tempi, ancora buio, nel quale risuonava una voce tanto adirata e inceppata da essere incomprensibile, qualcosa che non sapevo gestire, una fantasia ingenua e inverosimile di riscatto totale, l’urlo di una rappresaglia insensata e sfarzosa, come quella che progettano i bambini quando qualcuno gli toglie dalle mani il gioco al quale tengono tanto.
VINCENT PRICE
Phibes è rimasto sfregiato, la sua faccia è ormai ridotta a un teschio scarnificato, ma quando sul viso spolpato applica la maschera in lattice allora assume il volto di Vincent Price. Aristocratico, sadico ma irridente, Vincent Price rende Phibes un cattivo da fumetto. Se Phibes è Vincent Price, allora Phibes non potrà mai essere abominevole, sarà, invece, carismatico, folle, e porterà in scena un terrore che genera piacere e puro divertimento, fatto di gesti scomposti, di applausi davanti a disastri aerei, occhi striati di rosso strizzati in una parossistica esternazione della follia e sorrisi in camera, a sdrammatizzare l’atrocità delle pene inflitte ai nemici. Phibes, come Price, fa dell’orrore uno spasso e della paura della morte un piacere.
Vincent Price, reca in sé il volto dei personaggi di Edgar Allan Poe, dai lui interpretati nei numerosi e leggendari film diretti da Roger Corman nei primi anni Sessanta e in questo film non ha bisogno di parlare per imporre la sua presenza. Per buona parte della storia lo vedremo, muto e impassibile, attendere alla propria vendetta, lasciando l’intero peso dell’interpretazione al suo volto divenuto ormai una maschera che esprime allo stesso tempo malinconia, ira, odio smisurato, smisurato amore, folle divertimento.
MORTE PER ULCERE E ALTRI GUAI
Uno è morto punto dalle api, un altro dilaniato dai pipistrelli, uno viene dissanguato, un altro ha la testa stritolata in una morsa, un altro esplode in volo dopo aver perso il controllo di un elicottero infestato dai topi, uno viene infilzato da una gigante testa di unicorno, un altro è assiderato, e un’altra viene divorata dalle cavallette. L’unico superstite rischia di veder morire il suo unico figlio a causa sua. Nel film i nemici di Phibes, eccetto la sua ultima vittima, fanno una fine atroce. Le morti si susseguono a ritmo vertiginoso in rapide sequenze in cui tutto viene compiuto da Phibes e dalla sua assistente Vulnavia, con fredda efficienza, e nel più completo silenzio. Imbrigliate in uno schema macchinoso – i delitti seguono l’ordine biblico delle Piaghe d’Egitto – architettate in modo spettacolare e terrificante, con un dispendio di topi, pipistrelli e cavallette voraci, una maschera gigante con la forma di una testa di rana dotata di un infernale meccanismo che porta alla morte per stritolamento delle testa – le sequenze di morte offrono a Vincent Price continue occasioni di sfoderare il suo folle disarmante sorriso a favore di camera, trasformando l’orrore in qualcosa che è una esagerata performance teatrale, uno spettacolo che è insieme atroce e parodistico.
L’abominevole Dr Phibes è una grandiosa commedia dell’orrore e di vendetta in cui ogni cosa, più che morbosa, è eccessiva, melodrammatica e comicamente crudele. Phibes è fatto della materia di cui è fatta la sua vendetta, quindi è una moltitudine. La vendetta, la sua fantasticheria, è frutto di uno sforzo immaginativo e scenografico smisurato. Quando la storia inizia sono trascorsi anni dalla morte della moglie, questo è il momento in cui Phibes si fa giustizia da solo, la sua idea di giustizia, e gode dei suoi successi. Per noi che lo guardiamo, per la me ragazzina che lo ha eletto suo super eroe, è il momento di stare dalla sua parte e di gioire con lui dei suoi successi.
No, nella vita reale nessuno pagherà per nessuna delle cose che ci farà soffrire, per superare questa sconcertante verità ci vorrà tempo, un bel po’ di tempo, e una passione, oppure molte, a cominciare da questa, i film dell’orrore, il piacere provato nel provare paura, nell’incutere paura all’altro, vivendo sullo schermo, insieme ai protagonisti, la vita del carnefice, che è anche e soprattutto un eccentrico giustiziere.
ORCHESTRA
Ma ora, per avvicinarci alla fine, torniamo all’inizio del film. Siamo nella casa di Phibes, lì dove torneremo quando tutto si sarà compiuto secondo i suoi piani, o quasi. Sui titoli di apertura parte l’organo suonato dal Dr. Phibes. Lui ascende allo schermo, dagli inferi, o almeno da una cripta, vestito di nero, incappucciato, di spalle. Non vediamo il suo viso, a lungo non sentiremo neanche la sua voce, ma cosa importa? Phibes, è una delle poche cose che dirà sul suo conto, è già morto, o almeno non è più vivo di ognuno degli omini meccanici che compongono l’orchestrina incaricata dell’intrattenimento musicale, che lui dirige muovendosi come un esagitato maestro d’orchestra.
Tutto è già nei titoli. L’orchestrazione di una vendetta, meccanica e sfarzosa, inquietante e tragicamente comica, oltre che del tutto insensata. Il concertino ci delizia alcuni istanti ma ecco che nel suo sfarzoso salone, dal fondo di quella che sembra essere una sala da ballo, si spalanca una porta di luce dalla quale si affaccia un fantasma, forse anche lei un fantoccio meccanico, ma bellissimo e vestito di bianco. Incantevole, anche lei silenziosa, appare Vulnavia, assistente e braccio armato di Phibes, ma soprattutto, simulacro della moglie morta, fantasma seducente con il quale il vedovo inconsolabile si abbandonerà a appassionati giri di danza. Per tutto il film, nella casa di Phibes, che Robert Fuest, il regista, ha trasformato in un lucente mausoleo funebre, vedremo danzare Vulnavia e Phibes. Lei silenziosa ed elegantissima, lui rigido e spettrale. Solo dopo capiremo che questa danza romantica, questa scenografia fatta di lunghi sguardi e vestiti favolosi è un macabro rituale di morte, qualcosa che sempre si compie prima o subito dopo un assassinio.
Alla fine del film, dopo che Phibes avrà portato a termine la sua vendetta, o quasi, e ordinerà a Vulnavia di distruggere tutto, torneremo in quel salone delle meraviglie, dove ogni oggetto sembra vivere di vita propria. Distrutti dall’ascia dorata impugnata da Vulnavia, i suonatori dell’orchestrina meccanica, continueranno imperterriti a suonare anche nel bel mezzo della sua foga distruttiva. Tutto viene demolito, solo un’idea resta, solo un desiderio trascende il tempo, la contingenza della vita, e mantiene inalterata l’illusione di una vita che prosegue nella morte.
Quando Phibes, strafatto di formaldeide, sparata in vena con fervore mistico, si ricongiunge alla moglie Vittoria Regina abbracciando le tenebre e richiudendosi con lei nel sarcofago nuziale, siamo costretti ad ammettere, ancora una volta, che l’unica vendetta possibile contro la vita è proprio la morte.
Ma noi, noi che restiamo e vogliamo vivere, ci accontenteremo di quella sullo schermo, per continuare e andare avanti.
(Emanuela Cocco)