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Quando ho deciso di vedere “Madre!” (Mother!, 2017), volevo camuffare le cicatrici di “Requiem for a dream” e cercavo l’altro Aronofsky – quello malinconico di “The wrestler o “L’albero della vita” ma con l’alleggerimento de “Il cigno nero”. Insomma, mi volevo rimettere in pace con un regista che avevo amato fin troppo nelle sue spirali di depravazione, ed essendo “Madre!” catalogato come puro horror mi sono illusa di poterlo fare.

Peccato che “Madre!” non sia affatto un film dell’orrore, ma una pellicola con tutt’altro intento, concepita per essere letta su due livelli distinti – tre, se questi due si fondono insieme. La si può vedere la prima volta con la premessa – fallace – che sia un film di paura; una seconda volta per quello che è, dopo aver letto l’intento dichiarato del regista e che vi svelerò alla fine; una terza dimenticandosi di entrambe le definizioni ma avendole ormai incamerate e quindi godendo delle performance visive e metaforiche di un cineasta che ha voluto strafare, e c’è riuscito in modo mirabolante.

In questo pezzo per il progetto Mr. Hyde invece di parlare di più frammenti farò due distinzioni nette. Nella prima parte mi riferirò solo al film senza badare alle allegorie. Nella seconda, invece, farò riferimento al sotto-testo di Darren Aronofsky.

n.b. nessuno dei protagonisti ha un nome proprio, nel film.

VISIONE 1:

Madre!” si apre sul volto di una donna deturpata dalle fiamme, con gli occhi però ancora vividi e presenti. Poi più niente, tutto torna pulito, c’è una vecchia casa che si restaura pian piano – da sola – con il sorgere della prima luce del mattino; una ragazza (Jennifer Lawrence) si sveglia e cerca suo marito (Javier Bardem). Lei, oltre a essere un’attrice sanguigna – e non solo un bel faccino, come le dirà dopo Ed Harris – avrà la telecamera puntata su di sé per tutte le sequenze, tranne alcune brevi interruzioni che saranno la proiezione di ciò che lei vede. Primi piani su un viso che si ha tutto il tempo di valutare come regolare, ammaliatore, iconico, ogni tanto un’inquadratura più ampia su un corpo che simbolizza la bellezza universale.

La protagonista – ci è chiaro fin da subito – ha un atteggiamento remissivo nei confronti del marito, di cui si prende cura in modo servile e al quale si approccia con fare fastidiosamente accomodante. Questa donna che gira per la casa a pulire, rassettare, cucinare e restaurare ogni angolo con impegno, abbinando colori e livellando imperfezioni, e per giunta si scusa con il marito – un poeta in cerca di ispirazione – se osa disturbarlo mentre sforna la torta. Credo ci siano ancora persone – troppe – che reputino l’asservimento di questa figura femminile come ordinario, persino doveroso, mentre per me la protagonista è stata motivo di biasimo fin dai primi minuti. Lo vedi quel piatto, ho pensato, invece di sparecchiare io glielo spaccherei in testa; con la torta rovente gli ci farei un cappello, al poeta; non parliamo della scopa. Poi, a un certo punto, sono stata distratta dall’invasione. In questa casa di campagna taciturna, in un idillio – dove, attenzione, il poeta non riesce a creare – entrano ospiti inattesi. Estranei, ma in realtà fan segreti dello scrittore – Ed Harris e Michelle Pfeiffer – che per giunta combinano un gran casino. Invadenti, fastidiosi e melliflui oltre ogni limite. Ma solo con lui. Lei non serve, se non “per servire”. A un certo punto Michelle Pfeiffer gira per le grandi stanze e si rivolge alla padrona di casa: “Lo sai, non sarai così giovane per sempre. Fai dei figli, così creerete qualcosa insieme. Ecco cosa manda avanti un matrimonio.” Da questo momento in poi, il poeta non ha più occhi per la moglie se non una volta – provocato da un moto d’orgoglio di lei – quando la sbatte al muro per dimostrarle di essere virile. L’interesse di lui è direzionato verso i suoi due ospiti, sopporta persino che ad irrompere in casa sua siano i figli della coppia, che litigano furiosamente e si accoltellano. I fan a quel punto cominciano ad accorrere da ogni dove, diventano troppi, indiscreti, e infine distruttivi. Il film va a sfociare in una versione parodistica di una guerriglia dentro le mura domestiche con strizzate d’occhio all’idealismo “make love, not war”.

Da questa prima visione senza premesse se ne esce un po’ frustrati, confusi dai continui cliché, anche se qualcosa di inspiegabile rimane: la sensazione che un altro significato sotterraneo si sia insinuato nonostante tutto, specialmente nel finale.

Ma ecco la VISIONE 2:

Che cosa voleva fare il regista con “Mother!”? Immortalare in un quadro contemporaneo la Storia Universale. Una Madre Natura di cui il Creatore stesso decide le sorti, idealizza per poi immolare, trascurandola, abusando della sua fertilità, deturpandone i paesaggi confortanti. Sono tentativi, i suoi, rovinosi ma necessari. Gli intrusi che profanano il paradiso sono Adamo ed Eva, uno dei loro figli uccide l’altro in casa, ed è ovviamente Caino. Ma non posso dirvi che fine farà il figlio di Mother e dell’ingordo poeta, perché quella è la scena che ne palesa la lettura e che ha deviato – erroneamente – la classificazione della pellicola in genere horror.

Se la protagonista è la Madre – non solo Natura ma anche Maria – e il poeta il padre, Dio, c’è un additamento severo e ardimentoso da parte del regista – in questo caso anche sceneggiatore – che plasma un Padre Eterno sadico, spietato ed egoico, mosso non dai grandi ideali cosmici, ma dal gingillo dell’idolatria che da essi scaturisce. Senza i suoi adoratori è un Dio che non gode, senza la sua ispirazione – e allo stesso tempo una mera incubatrice – non si sente davvero compiuto. Come un seme cieco che deve affondare nella terra per germogliare, e una volta attecchito sarà infestante e la renderà arida senza rimedio. Ma dato che anche le mamme, nel loro piccolo, si incazzano, Maria chiude il cerchio, che verrà sciolto, per essere ridisegnato.

Non posso svelare i simboli che ora leggerete dentro ogni inquadratura (un esempio? Il lavandino che si rompe è il diluvio che rende la Madre fertile). Adesso che avete in mano la chiave di lettura vi priverei di un’esperienza che necessita di stupore.

C’è della generosità che va oltre il mero circuito cinematografico nell’Aronofsky di “Mother!”, perché il regista ci regala un altare inquisitorio e lo strumento per indagarlo alla rovescia: non è più Dio a giudicare gli uomini – o qualcuno a farlo per lui – ma viceversa. Se davvero sono gli esseri umani a essere lo specchio dell’Onnipotente, l’immagine che ritorna indietro è esattamente questa. Guardatela tutti. E poi, giudicate.

(Beatrice Galluzzi)