Dove non esiste la punizione non c’è nemmeno il piacere della fuga.
(Kôbô Abe, La donna di sabbia)
Le prime nozioni imparate a scuola restano impresse nella memoria, senza uno scopo né un fine. Rare volte riemergono grazie a una loro manifestazione pratica.
Uno dei primi argomenti di fisica è ancora comprensibile e intuitivo, prima dell’aramaico: la risultante di due forze concorrenti è data dalla diagonale del parallelogramma che ha per lati le forze componenti. Detto così sembra chissà che ma guardando lo schema grafico con i vettori si capisce bene che il mondo è tutto un gioco di biliardo, di palle che girano e si scontrano.
La sua manifestazione pratica l’ho vissuta – o meglio subita – qualche mese fa.
Nel mio solito tragitto passo sopra un ponte alla confluenza di due torrenti, due valli, due correnti che si incontrano. Fino ad allora, anzi sempre, il vento non mi aveva mai creato particolari problemi, anche viaggiando con lo scooter. Ma quel giorno lì era diverso, aria di burrasca perfetta e, mentre stavo superando il ponte a una discreta velocità, una raffica molto forte e improvvisa mi investì di fianco, da destra. Lo scooter di colpo prese – giustamente – la direzione della diagonale, verso sinistra, verso l’altra corsia. Cercando di frenare, il mezzo sbandò ma comunque riuscii a fermarmi, nel mezzo dell’altra corsia di marcia, per fortuna vuota, a parte un furgone bianco che stava sopraggiungendo ma riuscì a frenare appena in tempo. Misi un piede a terra, incrociando gli sguardi delle due persone a bordo, preoccupati, mentre il furgone inchiodava bloccandosi a poco più di un metro da me.
In quei momenti non pensi a niente, è solo paura pura, brivido, terrore. Persi il fiato, feci un cenno ai due e ripartii con un’angoscia profonda, lentissimo, a bordo strada, stringendo saldamente il manubrio. In quei momenti e anche dopo realizzi che la tua vita avrebbe potuto cambiare tragicamente, di colpo, lì, in un qualsiasi inutile martedì. E addio me.
Tutto scomparirà ma
Il vento ci porterà
Questo profumo dei nostri anni morti
(Canzone dei Noir Désir)
Tutto per quel soffio improvvisamente violento e solitario, di cui ricordo con precisione il suono, quel rumore secco.
– È il vento che ci sta parlando!
– Cosa dice?
– Non lo so, non lo parlo il ventoso!
(Dal film L’era glaciale 3)
Già, ma cosa ne so io del vento e delle sue cose? Che mi importa della natura che mi circonda? Vivo come in un quadro, davanti a una scenografia che ignoro o non considero, perso nei miei progetti e nelle mie piccole urgenze. Non ho tempo sentire il vento, di guardare il cielo, a volte mi stupisco della forma delle nuvole o del colore arancio del tramonto ma intanto passo. Le stelle di notte? Sono solo lumini accesi chissà dove. Passo attraverso le cose e non mi importa di niente, a meno che.
Ci siamo scordati del vento, noi che abitiamo fra cemento e ferro, sotto corazze di lana. Ma che dio selvaggio esso doveva sembrare ai pastori antichi, ai marinari, ai villani.
(Gesualdo Bufalino)
I primitivi non conoscevano ancora la noia, vivevano ancora i ritmi della bestia ma riuscivano già a dare forma alle loro grandi paure. Pensavano per simboli e ogni gesto diventava un rituale.
Il vento lo avvertivano come una presenza magica. A volte brezza, a volte tempesta. Proveniva da qualcosa o da qualcuno, forse un gigante lontano, nascosto dietro quel monte laggiù, che soffia, sussurra, urla fino a sradicare gli alberi. La paura per i primitivi era costante, un film horror che si materializzava a loro insaputa.
Noi non siamo più così, abbiamo spiegazioni e nomi per tutto e andiamo avanti nella nostra piccola vita, mentre il vento si è rifugiato nella poesia
Fra le vivaci braccia del vento. Se potessi insinuarmi.
(Emily Dickinson)
E nell’immaginario collettivo, il cinema.
Il vento (The wind, 1928) è un film ingiustamente dimenticato che ho scoperto da poco, una bella scoperta.
Un film sfortunato, nato già morto, girato ancora muto nel 1928, quando ormai negli USA stava prendendo piede il sonoro e già questo out of time movie mi muove all’affetto.
Un film dove la diva Lillian Gish recita malgrado il vento fortissimo e inestinguibile che flagella perennemente un paese con nuvole di sabbia eterna. E a proposito di simboli: quella forza della natura che sembra quasi avere una volontà è rappresentata come un enorme e selvaggio cavallo bianco che scalpita nel cielo, capace di ostacolare continuamente le azioni delle persone fino a ridurle alla follia.
Il vento è un cavallo:
senti come corre
per il mare, per il cielo.
Vuol portarmi via: senti
come percorre il mondo
per portarmi lontano.
(Pablo Neruda)
“Un western che sconfina nel metafisico e nell’horror”.
Così è stato descritto e, se riusciamo a guardarlo, al di là della mimica e delle cadenze del muto, è davvero così.
Poi c’è quella spregiudicata carica erotica – nei contatti fisici, nei gesti repressi – che non si vedrà più per molto tempo, con la moralizzazione del cinema dettata dal codice Hays.
«Girammo nel deserto del Mojave, a 50 gradi, con otto motori d’aeroplano a elica che sparavano sabbia contro di noi, protetti da maschere, bandane e lunghi abiti per evitare le ferite da sabbia e vento». Così il set raccontato dall’attrice Lillian Gish, che curò il soggetto e scelse come regista lo svedese Victor Sjöström, con cui aveva già girato La lettera scarlatta e che molti anni dopo sarà il protagonista de Il posto delle fragole di Ingmar Bergman.
Sjöström illumina le scene abbagliando cose e persone all’interno di una penombra sfocata dal pulviscolo che immaginiamo incandescente. Un film di disperazione e morte, dove l’amore in fondo è solo un sollievo, una pausa prima di riprendere a sopravvivere in qualche modo.
Un frammento incisivo: l’azione del vento che smuove il cumulo di sabbia disseppellendo il corpo, il viso e soprattutto la mano del cattivo di turno, la mano del fantasma che torna o forse no. Dietro le finestre la fragile Letty (Gish) sgrana gli occhi mentre la sua mente vacilla.
Eppure il vento soffia ancora
Spruzza l’acqua alle navi sulla prora
E sussurra canzoni tra le foglie
Bacia i fiori, li bacia e non li coglie
(Pierangelo Bertoli, Eppure soffia)
Nel film precedente il vento sferzava con la sabbia una remota cittadina del West; in quello che ora vi presento il vento è più subdolo, smuove la sabbia sul terreno, facendola diventare una lenta marea che ogni giorno minaccia di seppellire un piccolo paese in una zona desertica giapponese.
Due realtà, due piccole città bastardi posti con una condanna perenne, in cui gli abitanti vivono imprigionati senza neanche più pensare alla fuga e mi viene in mente La città sostituita, l’onirico romanzo di Philip K. Dick.
La donna di sabbia, tratto dal libro di Kôbô Abe, è uno dei migliori film della “nuberu bagu”, la nouvelle vague giapponese, premio della giuria a Cannes 1964, giuria presieduta da Fritz Lang.
È la storia di un uomo, una donna, la sabbia e il fantasma della libertà.
Il resto è contorno, gli abitanti del paese sono gli altri, l’inferno.
Nessun personaggio del film ha un nome, è una storia universale in cui tutti ci ritroviamo e ci perdiamo, girata in un bianco e nero profondo.
Un entomologo della domenica è in ferie tra le dune di una sperduta provincia. Perso nei suoi pensieri, perde la corriera e chiede ospitalità agli abitanti di un villaggio vicino. Si sistema presso una giovane vedova che abita in una capanna sprofondata in una fossa sabbiosa, raggiungibile solo con una scala di corda. Durante la notte la scala viene però rimossa e lì comincia la coabitazione forzata tra l’uomo e la donna. Ogni giorno la sabbia ricade nella depressione e ogni notte i due devono spalarla dentro dei secchi che verranno tirati su dagli abitanti del villaggio.
Non c’è verso di scappare per lui, la libertà diventa una chimera. Per la donna invece è normale quella vita spesa ad arginare il mare di sabbia.
Spali per sopravvivere o sopravvivi per spalare? – le chiede l’uomo,
The answer, my friend, is blowing in the wind, cantava Bob Dylan e se lo diceva lui,
mentre i giorni, i mesi, gli anni passano in quell’assurda vita, nello sviluppo di una amara poetica, fino a un finale che non è un finale. La colonna sonora è un alternarsi di lamenti, scricchiolii e sgocciolii, mentre le note stridule del flauto e del liuto di Toru Takemitsu “erompono nel silenzio in folate disarmoniche, come un vento metallico”. La scena dell’atto sessuale è vibrante e memorabile: corpi che ansimano e soffrono, intenti più a togliersi la sabbia di dosso che al godimento.
Due film da vedere insieme, nell’ordine in cui li ho descritti, per una serata diversa, per togliersi un po’ di patina netflixiana, per apprezzare tecniche e linguaggi che ci sembrano antichi ma che mantengono senso e modernità, allontanandoci dell’ottundimento della vita moderna.
(Romeo Vernazza)