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Com’è possibile che gli esseri umani possano trarre piacere da stati spiacevoli?

Nel Settecento il filosofo David Hume si poneva questa domanda e già avvertiva quell’inquietudine che noi oggi respiriamo ogni giorno dell’anno.
E ancora più lontano, in un tempo trascorso che ha bruciato un’infinità di vite, un antico poeta aveva già descritto in bella scrittura quel fenomeno:

È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque, guardare dalla terra la grande fatica di un altro; non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere, ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune…
(Lucrezio, Sulla natura dell’Universo, Libro II)

Siamo attratti dal baratro degli altri, proviamo un piacere misto a orrore, sentimenti contrastanti che si fondono in una sensazione che ci riempie. Siamo orripilati dal dolore umano ma restiamo avvinti, incuriositi, legati da una dipendenza che difficilmente riusciamo a spiegare in poche, semplici parole.
Siamo attratti dalle tragedie vere, cerchiamo di non vedere mentre passiamo lungo la strada, eppure il nostro occhio affamato si posa sempre sull’incidente appena avvenuto, sul corpo a terra che riceve i soccorsi, sull’altrui patimento. La nostra vita si anima in quei momenti, nel pietoso stupore, nel brivido comodo del pericolo che non ci tocca e mai vorremmo che ci toccasse veramente.
Siamo attratti soprattutto dalla finzione, dalla narrazione, dal simulacro di baratri altrui, di drammi lontani, anche se la nostra attrazione nasce da inquietudini diverse. Perché dalla poltrona del cinema o dal divano di casa guardiamo un film dell’orrore che ci “terrorizza” con i suoi meccanismi di sorprendente tragedia e dopo, magari, non dormiamo per diverse notti?
Si è a lungo dibattuto e ancora si dibatte sulle diverse risoluzioni del problema appena descritto, chiamato il “paradosso dell’orrore” dal filosofo Colin Radford nel 1975:

1) Nell’horror vengono presentate situazioni che riteniamo orrende.
2) Nella vita tendiamo a evitare situazioni che riteniamo orrende.
3) Non tendiamo a evitare gli horror.

In soldoni la risoluzione più esplicita tra le tante del paradosso dell’orrore è stata proposta dal filosofo Noël Carroll nel 1990: il paradosso della tragedia nasce dal fatto che focalizziamo erroneamente la nostra attenzione sul fatto tragico in sé, perdendo di vista che il momentum nefasto è semplicemente funzionale al godimento della struttura narrativa globale.

Ora basta però, i paradossi affascinano e turbano ma chiedono tempo e pazienza.

Fermiamoci all’esperienza, alla realtà nuda e cruda: due avvenimenti recenti che mi hanno molto colpito e sono stati trattati troppo poco o troppo superficialmente dall’opinione pubblica internazionale.

Il primo. Siamo in Iran, nel febbraio di quest’anno. Una donna viene impiccata anche se già morta di crepacuore, dopo aver visto in sequenza sedici uomini morti sul patibolo, prima del suo turno. È la sorte toccata a Zahra Esmaili, condannata alla pena capitale per avere ucciso il marito, funzionario dei servizi segreti iraniani e responsabile di continue violenze sulla stessa moglie e sui figli. Le guardie hanno messo il cappio al suo corpo senza vita e la madre della vittima ha preso a calci lo sgabello sotto i suoi piedi.
Una precisazione: Zahra era innocente, aveva confessato l’omicidio del marito per salvare la figlia adolescente che gli aveva sparato alla testa, stanca delle sue continue violenze.
La notizia è durata lo spazio di due giorni e poi è diventata materiale d’archivio. Le esecuzioni in Iran, uno stato quasi teocratico, rientrano nella normalità, così come l’amputazione della mano ai ladri. Noi europei civili (per ora) ci scandalizzano inutilmente dei fatti orripilanti di quel Paese, membro dell’Onu, potenza nucleare e partner commerciale con cui è utile e necessario intrattenere rapporti. Per questo motivo tali fatti finiscono presto nell’oblio.
Un’altra ragione di questa veloce rimozione è la mancanza di testimonianze visive.
Sono drammi oscuri, senza figure. Possiamo solo leggerli ed elaborarli mentalmente ma dobbiamo fare uno sforzo perché nel nostro oggi abbiamo un disperato bisogno di immagini artificiali.
In questi casi si attua un doppio sforzo che vuole toglierci la percezione visiva dell’orrore: da parte dei boia di stato, per convenienza, e da parte delle reti televisive internazionali, per un senso di decoro e rispetto delle vittime e per non orripilare il pubblico.

Ci fu invece un periodo, sette anni fa, durante la conquista dell’Iraq da parte dell’ISIS, in cui i media fecero circolare filmati di stragi ed esecuzioni trasmessi dallo stesso Stato Islamico. La cosa finì presto, per l’enorme impressione che suscitarono testimonianze così crude e reali e per non fornire pubblicità ai terroristi.
Di allora, una scena orrenda che mi è rimasta impressa è l’esecuzione seriale di un nutrito gruppo di persone, decine e decine di uomini comuni, semplici cittadini di un paese conquistato, fatti scendere da un camion lungo la riva di un fiume.
I prigionieri correvano lungo un sentiero sabbioso, incitati dalle urla dei miliziani dell’ISIS. La riva era parecchio più alta rispetto al fiume, una specie di trampolino striato di sangue. La scena era tutta all’insegna della velocità: in tre, quattro secondi ogni uomo arrivava correndo sul ciglio dell’argine, una guardia gli sparava alla nuca e il corpo volava nel fiume. La stessa esecuzione si ripeteva ossessivamente, veloce, poveri uomini come tanti buster keaton portati al macello, senza reagire, rassegnati allo stupore. Come bestie al mattatoio, come le persone uccise a milioni dai nazisti. La forza di quel filmato è davvero devastante e non credo che riuscirò mai a dimenticarlo.

Il riflesso di quell’obbrobrio visto dalla parte opposta è il gruppo di foto scattate ad Abu Ghraib dai carcerieri americani ai prigionieri. Secondo Pierandrea Amato nel suo libro In posa, qui i nemici torturati sono costretti a formare dei tableau vivants. l’orrore è messo in scena, rappresentato in una performance che, se da una parte spettacolarizza, dall’altra parte normalizza la violenza.
Nel Medioevo una persona entrava in contatto con poche decine di immagini artificiali (affreschi, quadri, statue) in tutta la sua vita. Oggi ne consumiamo circa 400.000 al giorno. Si parla di paradigma iconocentrico e di crisi del modello culturale tradizionale basato sulla centralità della parola, orale o scritta ma noi, per agonia o per rantolo, scriviamo libri su libri su libri.

Mi ha colpito molto la fine di Zahra, uccisa due volte, quell’infierire sordido, il contributo attivo fornito dalla suocera, la sua inutile vendetta. Forse per mia inclinazione professionale ho cercato di visualizzare quel tragico evento, di dare spazio, luce, collocazione e qualità ai personaggi della scena. A fatica ho immaginato un luogo aperto, desertico, squallido, una scena misera come i protagonisti, vittime e carnefici, vite modeste e senza scopo. Per pietà ho pensato alla scena vista dall’alto, lontano, rendendo figure e movimenti simili a formiche brulicanti. Un quadro imperfetto, un climax confuso, non convincente.

Ho cercato allora di attingere a frammenti filmici pertinenti. Mi è venuto in mente il film Impiccalo più in alto (Ted Post, 1968) dove, forse per l’estetica vintage, il linciaggio del giovane cowboy Clint Eastwood è composto, più plastico che tragico. Per atmosfera e azione, l’impiccagione di Brody nella terza stagione di Homeland (2013) diventa certamente più realistica e impressionante. Sera, luci artificiali, spazio aperto scabro e polveroso, una gigantografia di Khomeini sullo sfondo e il cappio collegato a una gru di cantiere. Solo in mezzo alla folla agitata e urlante, l’impiccato stramazza mentre viene sollevato in alto, come se fosse nella giostra dei calcinculo. Le espressioni facciali del dolore e del soffocamento di Brody sono davvero impressionanti.
Ho poi pensato a un’altra serie, The Handmaid’s Tale (2017-2021), ai percorsi urbani costellati da impiccati lasciati appesi giorni e giorni come monito per i passanti e soprattutto alla originale e brutale esecuzione dei due innamorati nell’episodio 12 della seconda stagione. Con un peso da palestra incatenato intorno alla vita, i due giovani adulteri vengono portati sulla piattaforma dei tuffi e spinti giù nella piscina della scuola. Con colori freddi e ombre pesanti, nell’acquario verdognolo dove le strisce delle corsie diventano croci, la ripresa subacquea dei due corpi in piedi sul fondo che cercano di abbracciarsi mentre annegano è un pugno nello stomaco, triste quanto straniante.

Ora siamo in Canada, maggio e giugno scorsi. Notizie di orrore puro. I resti di centinaia di bambini nativi vengono ritrovati sotterrati nei pressi di un ex scuola cattolica di Saskatchewan. ll numero dei corpi ritrovati è di oltre settecento, che si aggiungono ai resti di altri 215 bambini scoperti il mese precedente vicino a un’altra scuola in British Columbia. Gli istituti facevano parte di una rete di scuole, fondate dal governo canadese e amministrate dalle chiese cattoliche che strappavano i figli degli indigeni dalla loro cultura per assimilarli alla propria e, probabilmente, per togliere eredi ai proprietari delle terre indiane.
Sono stati oltre 150mila i bambini nativi che tra l’Ottocento e la fine degli anni Settanta sono stati costretti ad entrare in scuole residenziali, dove venivano “convertiti”, maltrattati, picchiati e spesso uccisi. Alcune stime valutano oltre seimila bambini uccisi in queste scuole. Una rete di organizzazioni cristiane e uno stato civile e democratico hanno attuato sistematicamente un genocidio infantile talmente abietto che spinge la tristezza e il disprezzo a limiti insopportabili.
In questo caso, nonostante sia a disposizione una filmografia immensa su prigioni, collegi e istituti correzionali dell’orrore, non riesco a immaginare alcuna scena che descriva un simile dramma, ogni pensiero è coperto dalla pena e dalla compassione per quella grande strage degli innocenti, per l’annullamento razziale dei deboli perpetrato da quelle che si definivano le forze del bene.

Una nota conclusiva, una mia impressione non richiesta. Riguarda noi, frequentatori e attori di questa bolla piena di lettori forti, recensori, scrittori o aspiranti tali, persone affamate e produttrici di cultura. In questi anni ho avvertito un sempre maggior distacco da temi politici alti, maggiore superficialità, acredine e contrapposizione frontale su qualsiasi argomento. Come mai molte persone che scrivono post con brillanti recensioni letterarie non si occupano minimamente dei grandi fatti del mondo o, se lo fanno, dimostrano un maldestro ingegno davvero imbarazzante? Come mai persone che leggono quintali di libri riescono appena a balbettare ovvietà su fatti di politica locale minore e gossip? Una risposta posso fornirla già io: ormai tutto è divisivo, sia che si parli di vaccini che di Orban, quindi esprimere un’opinione, anche argomentandola bene, vuol dire esporsi a commenti esacerbati, offensivi, ghignanti, ignoranti.
Altra risposte ovvie: tanti autori pieni di sé sono solo pieni d’aria, i social non sono il mezzo giusto, temi importanti necessitano di testi lunghi e articolati (non è sempre vero) che pochi leggono, mentre la foto di un gatto che dorme sul letto raccoglie una caterva di like.
Tutto vero però, visto che i like in fondo non valgono niente, non diventano denaro e domani sono già morti e sepolti, perché non leggere qualche “capolavoro” in meno e cercare di studiare con passione i grandi problemi del mondo e del nostro Paese? Chissà, non servirà a niente, ma almeno ci formeremo una coscienza e non verremo sorpresi a parlarci addosso in qualche salotto letterario quando le forze sovraniste, cafone e ignoranti, andranno al potere.

(Romeo Vernazza)