Ci sono pensieri che vorrei portare a fare un giro, per strangolarli. Vorrei liberarmene per non doverli più ascoltare. Dicono troppo e lo fanno nel modo sbagliato: frasi complicate, cicliche, vischiosi loop deformi a cui manca qualcosa perché siano comprensibili a qualcuno che non sono io. Frasi decapitate, pensieri che seviziano. Allora corro ai ripari. Li porto in posti sgradevoli per cercare di sopprimerli, li traino fino a Whittier, una città nella contea di Los Angeles, a casa di Vincent Zazzara e di sua moglie Maxine, la notte del 27 marzo 1985, quando un uomo, Richard Ramirez, soprannominato dai media Night Stalker, entra in casa e li uccide e poi li sevizia.
Oppure me li trascino dietro, fin dentro la camera da letto di Joni Lenz, una diciottenne americana che sta dormendo quando viene picchiata nel sonno con una spranga di ferro, la stessa con cui Ted Bundy subito dopo la violenterà, per poi lasciarla immersa nel suo sangue, ma ancora viva, una delle poche superstiti tra le sue vittime, almeno trenta giovani donne uccise da Bundy tra il 1974 e il 1978, in giro per gli Stati Uniti d’America.
Funziona. Me ne sto sul divano, guardo Ted Bundy: Falling for a Killer, docuserie in cinque puntate prodotta da Amazon e i pensieri se ne vanno. Ascolto Elizabeth Kendall, l’ex fidanzata di Bundy, invecchiata, ingrassata, contrita, raccontare la sua storia d’amore con il serial killer, dire qualcosa che suona come un: ma allora non è mai stato vero? Non mi ha mai amata? E Funziona. Vedo sua figlia Molly, che ai tempi della storia di orripilante affetto, segreti e sangue, che è lo scenario della serie, era solo una bambina e in Bundy vedeva un uomo meraviglioso, simpatico, forse un possibile padre, prima che tutti sapessero come si era divertito a sequestrare e ammazzare tutte quelle ragazze.
La vedo piangere e rabbrividire pensando a tutta quella morte a un passo da lei, all’infanzia che le è stata portata via dall’uomo a cui sua madre ha dedicato anni di amore, un amore che a lei bambina era sembrato fantastico e che invece era anche malato e pericoloso, che avrebbe potuto esserle letale. Funziona. Le ascolto parlare e intanto sopprimo i miei pensieri peggiori, li lascio affogare in questo mix di colpi fendenti, corpi occultati, baci, sorrisi e battute da film giallo di qualità scadente, di quelli che mandano in onda il sabato sera su Rai Due. La verità è inverosimile. Queste vite sono state sceneggiate male. Elizabeth dice: Non ne sapevo nulla e come ho potuto, come ho fatto a non capire?
I miei pensieri se ne vanno da qualche altra parte. Fisso sullo schermo una foto in cui Elizabeth ha i capelli sciolti, l’aria da ragazzina, indossa una giacca a vento gialla ed è seduta sulle spalle di un ragazzo riccioluto, che come lei guarda in macchina. Sono al mare, sorridono. Lei, issata sulle spalle di lui, tiene tra le mani il viso dell’uomo che ama, in una giornata di sole e vento in cui sono giovani, sono al mare, felici. Lui è Ted Bundy, lo sappiamo, ma è anche quel ragazzo. Altre foto. Un uomo e una ragazza che si amano e si guardano negli occhi, al mare, in montagna, a cavallo. E in mezzo a loro una bambina con il vestito a fiori, felice, al sicuro. Quello che sappiamo di questa storia, i dettagli macabri sul sadico manipolatore Ted , tra i più spaventosi serial killer americani mai esistiti, non bastano a cancellare dentro Elizabeth, e dentro di noi che guardiamo la foto, la certezza che quelle giornate ci siano state, che i due giovani e quella bambina ritratti nella foto siano esistiti, anche se ci sembra impossibile pensarlo.
Le immagini di serenità familiare e amore si moltiplicano in pose diverse nel corso della storia, immagini in cui, a un certo punto compare la bambina, immagini di serenità e amore che vengono oscurate e assumono una tonalità grottesca quando sullo schermo iniziano ad affiorare i volti delle donne uccise da Bundy, tutte così giovani e belle, stessi capelli lunghi e scuri, stessi occhi grandi, tutte sorridenti, inconsapevoli di quello che le attendeva poco dopo la giornata in cui sono state immortalate nell’obbiettivo, appena un battito nella linea del tempo che le separa dalla loro giovinezza e le imprigiona nelle sequenze che sempre accompagnano la storia del sanguinario killer delle studentesse, il necrofilo Bundy. Funziona. Guardo la soap horror su Ted Bundy e resto catturata dalla sua rappresentazione fatta da istantanee sovrapposte a testimonianze patetiche.
Scatti fotografici spaventosi, anche se non puoi vederli basta sapere che qualcosa è successo e arrivano precise, come appena registrate, immagini piene di orrore; calano negli occhi attraverso le parole e sembra di vederle sul serio: teste decapitate, corpi smembrati, sequenze che non sono mai state riprese eppure eccole lì, frame dopo frame, incise per sempre nell’immaginario collettivo in cui spicca tra tutte il volto sorridente dell’assassino, che non prova vergogna o rimorso. Ma altre foto sono state scattate sul serio, le abbiamo viste tante volte, le rivedremo di continuo guardando la serie.
Bundy in abito scuro, elegantissimo al suo processo, immagine esistente, e poi, ancora un’immagine fantasma, sempre lui, scapigliato, giovanissimo, volto anonimo di un ragazzo come tanti che ispira fiducia, con il braccio ingessato, immortalato nel racconto delle superstiti mentre chiede aiuto a giovani ragazze gentili che poi rapirà per strangolarle, stuprarle prima o dopo morte, non importa. Sto guardando l’ennesima ricostruzione dei suoi delitti e funziona, non penso più a nulla, ma la qualità della mia distrazione mi disturba.
Non voglio pensare ed ecco che sono di nuovo sul divano e stavolta guardo Night stalker: caccia a un serial killer, docuserie in quattro episodi sul folle anno (dal 1984 al 1985) in cui Richard Ramirez uccise almeno 15 persone introducendosi in piena notte a casa loro senza un movente, dopo averle scelte a caso, senza che tra le vittime ci fosse un solo criterio che potesse aiutare gli investigatori a costruire un profilo dell’assassino.
Bambini molestati strappati al loro letto in piena notte, donne anziane violentate, uomini giustiziati a colpi di pistola: Ramirez ovvero il caos, la morte che ti piomba addosso senza una ragione e che prima di colpirti ti fa provare tutto l’orrore possibile. Anche qui, parenti delle vittime che piangono raccontando aneddoti di vite spezzate, il punto di vista dei detective Gil Carrillo e Frank Salerno, punto forte della serie, che ci accompagnano alla scoperta della loro indagine, ma soprattutto ancora foto, istantanee spaventose: le scene del crimine chiazzate di sangue, le foto di Ramirez appena catturato, e poi quelle di lui, elegante e tirato a lucido al processo, e quelle delle donne che, come accadde anche per Bundy, nonostante l’orrore lo hanno trasformato nel loro oggetto del desiderio. Foto di donne che si mettono in posa per lui. Foto di lui che ammicca in aula all’obiettivo. Ramirez come Bundy: il serial killer pedofilo, sadico e necrofilo, che piace alle donne. Me le guardo, queste foto, queste due storie, per non pensare ai fatti miei.
Mi ficco dentro questi scatti in bianco e nero, con le pareti o i pavimenti chiazzati di sangue, i corpi riversi e la cosa funziona sempre, perché in mezzo a questi scatti di cronaca nera ci sono altri scatti in cui tutto è quieto e ridente. Guardo le foto e ci precipito dentro, sono proprio quelle immagini a spaventarmi di più, quelle che resteranno con me quando la serie sarà finita. Lì tutto è quieto e fermo, e io non riesco a smettere di guardarle.
I volti di uomini e donne che sappiamo essere stati brutalmente uccisi in quegli scatti sono ancora giovani e belli, in pace. Tutto è calmo e sereno in quegli scatti incorruttibili, come accade quando le cose si fissano nella memoria senza possibilità di contraddittorio, quello che è venuto dopo non importa, da qualche parte, in quelle foto, le persone sono ancora vive e al riparo, nessuno può ferirle.
Le foto delle vittime, in queste serie, una vale l’altra, sono onnipresenti, sono loro le vere protagoniste. E sono proprio i volti delle vittime gli unici ad avere voce in capitolo per dire cosa è stato sottratto a questo mondo, quello che è stato distrutto. Il perché non importa, le docuserie non lo dicono mai, al momento in cui vengono catturati i personaggi dei serial killer perdono consistenza, diventano ridicoli bambocci. Ted Bundy in aula che chiede a una sua sostenitrice di sposarlo. Sa che verrà condannato alla sedia elettrica e tenta un ultimo colpo teatrale. Lei accetta, avranno una figlia. Vedremo anche le foto della sua nuova famiglia, dietro le sbarre. Ma ormai Bundy, il supponente difensore di sé stesso, insostenibile nella sua messa in scena del giovane innamorato, ora che è dietro le sbarre non ha più nulla di speciale; speciale è stata la sua atrocità che di nuovo, ancora e ancora fino alla fine, sarà evocata dai volti delle vittime, fissati per sempre nel quadro statico del prima, quando il mondo era in ordine e loro potevano specchiarvici dentro con fiducia.
Il racconto seguirà il corso degli eventi fino ai giorni nostri ma non ci sarà nessuna risoluzione. Tutto termina così com’è cominciato, a caso, senza una soluzione, senza movente. Le serie sui serial killer e i loro crimini violenti sono uno svago come tanti, una cosa che mi aiuta a non pensare, un diversivo nero, un passatempo comune a molti, la passione per le storie dell’orrore che nessuna mente ha inventato, scritte dalla mano di assassini, vere come i corpi che vengono ritrovati dopo anni, vere come il sangue di cui si sono cibate. Un resoconto terrificante di quanto nella vita può andarti male, che ci seduce come spettatori, senza ripercussioni sul proprio senso morale, un passatempo che ha la stessa consistenza della visione di una commedia a episodi, che muove la paura come l’altra muove il riso. Non si diventa assassini appassionandosi alla storia di Bundy, a quella di Ramirez o di Jeffrey Lionel Dahmer, così come non ci si trasforma in Jerry Seinfeld ridendo alle sue battute.
La serie sta per finire, una o l’altra non importa, si chiudono tutte con il corteo dei volti delle vittime che sfilano sullo schermo, volti belli e sorridenti che mi spaventano tanto perché la morte violenta e terrificante che è nel fuori campo, che so essere lì, da qualche parte, in attesa, è attivata dal loro sguardo, da questi luminosi visi che sono un monumento terribile alla fragilità della vita umana, alla sua inutile bellezza, che non salva e non offre riparo. Tra poco tornerò ai miei pensieri, sedati, bendati e silenziati per un poco, sepolti chissà dove, ma sempre capaci di risollevarsi dal tumulo in cui li ho ficcati per tornare da me e farsi vivi, finché non troverò qualche altra cosa per farli fuori. Per ora però sono ancora catturata da quegli sguardi e sorrisi che mi spaventano tanto, mentre su tutto il resto posso farmi una risata. Li guardo, li tengo nei miei occhi.
È come in quella poesia della Dickinson:
In quale modo ai doni della Vita
Si confrontino i doni della Morte
Non lo sappiamo –
Ogni valutazione
Si ferma qui.
(Emanuela Cocco)