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Amnesia infantile, così si chiama il fenomeno.
Succede che mentre cresciamo perdiamo la nostra infanzia, la perdiamo in tutti i sensi, anche nei ricordi. La drastica cancellazione neurale comincia intorno ai sei anni e a otto già non ricordiamo quasi più nulla di quando eravamo all’asilo e anche prima. Ecco, quell’anno avevo proprio otto anni e fino a quel momento non avevo mai visto un fantasma oppure lo avevo già dimenticato.
Poco dopo lo vidi per davvero e iniziai alla grande: era addirittura il Fantasma del Louvre.
Belfagor lo chiamavano, era uno sceneggiato tv, l’antenato delle serie odierne. A casa mia il televisore mica c’era e così andavo a vedere ogni puntata da Paolo, un mio compagno di classe che stava in fondo alla via. Ci sedevamo in cucina, intorno al tavolo di formica, come per mangiare, io, lui e sua zia, seguivamo il film e poi al termine salutavo e tornavo a casa. Era estate e dalle montagne il buio della notte era già sceso quasi del tutto. Ricordo bene le corse a perdifiato per superare quel centinaio di metri di strada deserta fino a casa mia. È proprio vero che quando si è giovanissimi le sensazioni si ingigantiscono a dismisura: la gioia è gioia incontenibile e la paura una morsa alla gola.
A ogni puntata cresceva la mia ansia per il ritorno a casa, però ci andavo lo stesso e non aspettavo altro che le brevi, dosate apparizioni di Belfagor, che a ripensarci ora era una suora con una rozza maschera egizia che invece di camminare sembrava scorrere su rotelle, le gambe nascoste dai paramenti neri. Sembra strano ma era proprio quell’innaturale movimento da carrello della spesa che mi faceva più paura. Ognuno ha la sua percezione dell’orrore, tremiamo e abbiamo paura ma vogliamo guardare, e sentire, che a scappare c’è sempre tempo.
Nell’epica horror il fantasma è forse il personaggio più abusato e più conservatore nei costumi, almeno questo risulta ai miei occhi voraci.
Dalla profonda angoscia del lenzuolo animato vittoriano di tanti libri e film sono passato agli spiriti chiassosi e contestatari di Poltergeist (mai costruire la casa sopra un cimitero!). Il vituperato Ghost lo ricordo ancora con piacere per i lacrimoni di Demi Moore, il più grande amore virtuale della mia vita. La Casa di Raimi mi sembrò un film pensato e diretto all’interno di treno che stava per deragliare e boh. Vedo la gente morta de Il Sesto Senso e il fantasma dai lunghi capelli neri di The Ring sono ormai dei meme fluttuanti nei social. Gli spettri a loro insaputa di The Others hanno incarnato una stagione politica indimenticabile. Mentre Shining è Shining, ricordo con piacere lo spettro-zombie Jack (Griffin Dunne), l’amico sbranato in Un lupo mannaro americano a Londra, del genio Landis.

Da tempo non mi aspettavo più nulla da un film di fantasmi né lo andavo a cercare. Ora invece, per caso navigando su Netflix tra la noia e il sonno, ti vedo questo: A ghost story (Storia di un fantasma), l’understatement della titolistica. Regia del quarantenne David Lowery con un recente passato indie. È una bella sensazione imbattersi per caso in un film che ti attira fin da subito, pur senza saperne assolutamente nulla.
La trama senza spoiler: una giovane coppia conosciuta solo come C e M (Casey Affleck e Rooney Mara) stanno discutendo di lasciare la vecchia casa texana di legno per trasferirsi in città; lui vorrebbe restare, lei no. Il giorno dopo C muore in un incidente d’auto. Fino al momento in cui M lascia tristemente l’obitorio il film potrebbe anche ricordare un vecchio spezzone condensato di Éric Rohmer. A quel punto, lentamente, quasi un risveglio affaticato, il cadavere di C sotto il lenzuolo si alza dal tavolo e si mette a sedere. Lo ritroviamo poi camminare nel corridoio dell’ospedale come un’apparizione a bassa tecnologia: un lenzuolo animato con i buchi ritagliati per gli occhi. Un costume da fantasma fatto in casa per Halloween o l’iconografia tipica dello spettro nelle barzellette.

Il sorriso per l’apparizione mi viene spontaneo ma è solo una premessa volontariamente comica anche se, mi accorgerò in seguito, una leggera vena ironica continua spesso a velare la maliconia e la solitudine dominanti.
In fondo al corridoio si accende nel muro un riquadro di luce accecante: è la soglia del soprannaturale, la porta dell’aldilà, sempre quella, più o meno la stessa di Ghost o di Poltergeist e di altri film. La soglia che alcuni spiriti inquieti o stupefatti dalla morte si ostinano a non varcare, restando ombre nel mondo di qua. C fa lo stesso, ignora la porta e si avvia verso l’esterno.
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Dal quel momento comincia il vero film, la storia di un fantasma atipico che, come un qualsiasi pedone che ha perso l’autobus, si avvia a piedi verso casa, attraversando enormi distese di prati e montagne verdi. Il lungo cammino ha un che di maestoso, emozionante; lo strascico del lenzuolo sull’erba comincia a sporcarsi e con l’andar del tempo diventerà sempre più lordo e consunto.
Ora C è una oscura presenza di casa, non parla e non parlerà fino alla fine, figura passiva e indifesa, si aggira quasi spaesato nelle sue stanze, al momento vuote.
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Ecco, al minuto 37 vi è il frammento che mi ha colpito di più: C ha un incontro senza parole con un altro fantasma. Lo vede dalla sua finestra, l’altro è dietro la finestra della casa vicina, il suo lenzuolo ha un piccolo disegno floreale, forse è una donna e qui comincia il breve colloquio telepatico sottotitolato.
Il lenzuolo fiorito accenna un gesto di saluto: Ciao
C risponde: Ciao
La donna: Sto aspettando che qualcuno ritorni a casa.
Chi? Le chiede lui.
Lei: Non ricordo.
Trovo quella scena intensa e straniante. Mi resta così impressa che voglio pensarci su e decido di spegnere la tv, è tardissimo e mi va di rivederlo con calma, riavviandolo da capo, un’altra sera, magari insieme alla Vernazzova.

Finisco di vederlo. È un film di continui accadimenti e lunghi silenzi, dove il tempo sembra sospeso e invece va avanti a scatti improvvisi e inaspettati, come una macchina col motore imballato, prima avanti e poi indietro per finire nel paradosso di Ritorno al futuro.

La casa intanto cambia arredi e colori, la partner in lutto se ne va, si susseguono altri inquilini e poi altri e ancora altri. In uno degli avvicendamenti si svolge una caotica festa dove un incurante Will Oldham si lancia in un monologo sul significato della vita, cinque minuti che contengono più parole rispetto al resto del film. La sua conclusione, che ben conosciamo tutti e cerchiamo quasi sempre di dimenticare: tutto ciò che gli umani costruiscono è effimero, alla fine scomparirà per sempre; non un ricordo, non una nozione o un libro fondamentale resteranno, tutto verrà bruciato dal tempo. Lo spettro ascolta il monologo e la sua fissità comunica stupore e desolazione.
Il fantasma di C assiste alle vite che passano e trascorre gran parte del tempo nel tentativo di recuperare un piccolo biglietto che M ha infilato nella crepa di un muro, prima di partire.
Pur nelle sue trasformazioni, quella casa è un mondo senza miracoli dove nulla è concesso a quell’anima senza più scopo se non cercare un perché o forse solo il modo per andare via da quel limbo senza fine.
A Ghost Story non è una favola ma un canto filosofico, una magnifica ossessione, un voyeurismo reciproco di soluzioni e intuizioni ma vi sono anche alcune sequenze di vero e proprio down emozionale, perchè il regista Lowery non è Kubrick e neppure Orson Welles. C’è il momento della canzone lagna di Daniel Hart, trait d’union tra C morto e M viva, melenso e imbarazzante forse anche per gli amanti di cose tipo Tempesta d’Amore. Sarebbe stato meglio evitare contatti paranormali, M avrebbe dovuto solo percepire qualcosa ma nulla di comprovato. Colpisce anche la violenta reazione a piatti in aria verso i nuovi inquilini messicani, anche se fa parte di una caratterizzazione negativa del protagonista. Infatti C era/è mica così buono, non è San Patrick Swayze, è stato egoista e prevaricatore con la sua compagna.
Per questo film e per altri come Get Out o Personal Shopper sono stati coniati più termini per indicarne il genere: Woke Horror o anche Post-Horror o ancora Nuovo Horror Artistico ma sappiamo quanto sia impellente per l’opinione pubblica la necessità di incasellare ogni cosa per tranquillizzarsi e tranquillizzarci.
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Tornando ai fantasmi, possiamo pensare che non esistono, fare gli agnostici o crederci più o meno fermamente. Io purtroppo li ho sempre visti al cinema o in tv e pur avendo vissuto in due vecchie case di centro storico non ho mai notato nulla di trascendentale. Ho invece pensato spesso a tutte le sconosciute generazioni passate che sono nate, vissute e morte in casa mia. E grazie alla mia immaginazione iperattiva mi sono raffigurato quelle anime morte mentre passavano trafelate, sostavano pensose o rantolavano proprio qui, dove ora sto seduto scrivendo la fine di questa storia.
Forse è questo il nostro destino: essere ricordati da qualcuno che non ci ha mai conosciuto e che verrà dimenticato a sua volta. Sembra quasi una frase de Il libro dell’inquietudine di Pessoa e quindi addio.

(Romeo Vernazza)