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Molti di noi sono da poco usciti dalla visione di Them, serie horror creata da Little Marvin sullʼAmerica razzista degli anni ʼ50: una famiglia afroamericana, gli Emory, si trasferisce in un quartiere patinato abitato da bianchi borghesi ed è destinata a scontare in perpetuo lo sconfinamento in un territorio che non li vuole e non li rappresenta. Fin dalla prima puntata, l’elemento portante dellʼhorror passa in secondo piano rispetto alla possibilità che certe barbarie siano state – e continuino a essere – realmente perpetrate. A fare orrore, infatti, non sono tanto le presenze malefiche, gli spettri accaniti solo sugli abitanti di colore, ma lʼombra più viscida e obliante della discriminazione che vediamo riflessa nelle iridi dei protagonisti, in special modo nel personaggio di Livia “Lucky” Emory – Deborah Ayorinde – la cui frustrazione monta assieme a quella dello spettatore. Lucky è una madre risorta da un lutto interiore inaffrontabile, in cerca di una pace che non le è concessa; torturata dalle continue provocazioni della dirimpettaia, sminuita e oltraggiata, non ha alcuna intenzione di soprassedere, e guida la rivolta dellʼintera famiglia. Lʼescalation di rancore finisce per essere rassicurante: si avverte nelle movenze dei perseguitati che prima o poi esploderanno, chiudendo il cerchio disegnato a terra con il sangue dei persecutori – ci ricorda qualcosa? Tarantino notre amour.

Già dal titolo, Them si potrebbe considerare uno specchio ribaltato di Us di Jordan Peele (2019) – entrambi hanno una protagonista femminile riottosa e impavida, la cui figlia è la stessa attrice: Shahadi Wright Joseph. Eppure non è questa la pellicola di Peele in cui trovare il culmine della rivalsa nei confronti dellʼegemonia bianca e xenofoba, che invece detona in Scappa – Get out (2017), per cui Peele ha vinto lʼOscar come migliore sceneggiatura originale. Il film a basso budget, che ha riscosso un enorme plauso da pubblico e critica, ha come protagonisti Chris, un fotografo di colore (Daniel Kaluuya), e Rose, la classica ragazza ex-cheerleader (Allison William) che lo porta a conoscere i suoi genitori bianchissimi, borghesi e fan di Obama, in una villa vicino a un laghetto, con un premessa che fa molto Indovina chi viene a cena e rimanda a vecchi cliché. Solo che Jordan Peele è maestro nel maneggiare gli stereotipi, perché li trascina con la forza nel territorio del ridicolo. Nato come comico, il regista mistifica i suoi horror con unʼironia liberatoria che fa un poʼ vintage – e che in qualche modo strizza lʼocchio a Beetlejuice di Burton o a Creepshow di Romero – in cui la risata non è chiamata ad alleggerire ma piuttosto a spostare di un millimetro lʼattenzione, interrompendo la sospensione dellʼincredulità per calcare la mano nel vivo della questione: il faticoso, sanguinario e meritato riscatto.

Mentre in Them la donna bianca è una vicina dichiaratamente perniciosa – personaggio un poʼ sopra le righe, quello di Elisabeth, interpretata dalla bravissima Alison Pill – in Get-out la ragazza americana dalla pelle candida è unʼaffabile esca dal corpo scolpito, eroica quel tanto da difendere il suo uomo quando un poliziotto li ferma e gli chiede senza motivo i documenti. Rose Armitage, figlia di un neurochirurgo e una psichiatra, rappresenta il lasciapassare per uno status sociale al quale si vanta di non appartenere – e che a Chris non interessa affatto – e rimane dalla parte del fidanzato quando lui è interdetto da alcuni metodi di famiglia. A parte un padre e un fratello melliflui e soggetti ad apparenti sbalzi di umore, è Miss Armitage, la madre di Rose – Catherine Keener – a detenere il potere sulle menti di tutti i presenti attraverso la tecnica dellʼipnosi. Peele riesce a rappresentare con sconvolgente efficienza la regressione psichica del protagonista nel momento in cui viene catapultato nelle condizione di semi-incoscienza; le immagini – anche qui, come in Them, filtrate direttamente dalla messa a fuoco del personaggio – sono profondamente destabilizzanti perché rendono lʼidea del disorientamento, della nausea, e della sensazione di precipitare nel vuoto interiore e rimanervi prigionieri. (In questo trailer brevissimo potete vederne qualche fotogramma.)

Ma nel momento in cui tutto sembra normalizzarsi, al raduno di amici di famiglia in casa Armitage, Chris viene trattato come un esemplare raro da mettere allʼasta e Rose interviene, facendogli da rifugio, e sminuisce tutti quei bigotti bianchi; lo ascolta parlare della madre morta, lo coccola, gli prepara le valigie quando lui decide di andare via – e qui arriva la svolta. Ma ricordiamoci che una parte di noi, durante la visione, ha inneggiato il colpo di scena risolutivo, quello in cui i conti tornano senza far avanzare nessuna unità, e Peele compiace quella parte con estrema padronanza.

Cosa che invece il regista non ha volontariamente fatto con Us, la sua seconda pellicola horror, in cui la risoluzione rimane in un limbo – e necessita di un riflessione a posteriori, probabilmente di una seconda visione – e dove la discriminazione razzista appare solo a sprazzi, e attraverso battute esilaranti nei momenti meno opportuni. Il fulcro del film è infatti lo sdoppiamento, il doppelgänger carico della sua accezione esoterica: non un semplice sosia, o un alter-ego, ma il gemello malvagio che esiste, cammina, e per Peele abita nelle gallerie sotterranee del mondo – unʼidea che per quanto sconfini nel paranormale, dopo la visione del film non ci sembrerà così improbabile. La protagonista di Us è Lupita Nyong’o, interprete del personaggio di Adelaide – o meglio, dei due personaggi – che incontra il suo doppio in una casa degli specchi di un Luna Park sulla spiaggia – e di nuovo: grazie Peele per amare gli anni ʼ80 come noi. Il film si apre allʼinterno di unʼauto dove Adelaide, suo marito e i suoi due figli intonano I got 5 on it dei Luniz – azzeccatissima canzone per il trailer e che incalza con precisione lʼatmosfera:

I quattro sono diretti nella casa estiva di famiglia; Adelaide non si sente a suo agio, episodi della sua infanzia compaiono in flashback frammentari, è sgomenta, sente che qualcosa si sta avvicinando – noi non sappiamo perché, ma lo sapremo a breve. A presentarsi sulla porta, infatti, è la sua stessa famiglia, in carne e ossa, ma nel suo duplicato maligno, uscita direttamente dalle fogne. In ruoli che si sovrappongono e che non si svelano mai fino in fondo, Peele ci regala continui primi piani su Lupita che sembra essere nata per questa parte: quella di una madre combattente e indefessa, dalla bellissima pelle scura, e con la sclera dellʼocchio così lattea da ipnotizzare chi la guarda. Il suo doppelgänger, accanito più di lei nel sostituirsi alla vita della ragazza privilegiata che sta “al piano di sopra”, la insegue finché non la raggiunge, così come fanno i gemelli del resto del mondo, decisi a uscire dalla zona d’ombra.

Il personaggio di Adelaide è indecifrabile, sfuggente, eppure noi tifiamo per lei e per il suo attizzatoio da camino; così come facciamo il tifo per la sua amica bianca – interpretata dalla talentuosa Elisabeth Moss, che ha appena debuttato alla regia in The Crossing – dedita allʼalcool e ai ritocchi, che le fa una battuta mentre sono al mare: “Non che tu ne abbia bisogno, troia”. La stessa amica che ritroviamo nella scena non principale, ma la più epica del film, nella quale sta per essere uccisa, chiede a allʼassistente vocale di chiamare la polizia: “Ophelia, call the police”, e lʼapparecchio le rimanda indietro la canzone Fuck tha Police, degli N.W.A.

Ecco qui il frammento, per allietarvi:

E mentre in Us salutiamo Adelaide in macchina con suo figlio che la guarda storta perché lui ha capito, lʼimmagine di Rose che ci rimane impressa in Get out è quella in cui indossa un’impeccabile camicia bianca, e beve latte mentre scorre sul computer immagini di ragazzi di colore come fossero quarti di bue dai quali rimediare un buon controfiletto, ma senza sporcarsi le mani, perché quello lo fa il macellaio.

Il cinema di Jordan Peele, con i suoi rimandi agli show comici e alle pellicole cult, è il nuovo filone horror di cui avevamo bisogno e che presumibilmente seguiterà con il nuovo film in arrivo nel 2021: Candyman, il “sequel spirituale” dellʼomonimo del 1992, di cui Peele è sceneggiatore e produttore, ma per il quale ha preferito delegare la regia a Nia daCosta, nuova promessa del cinema, dichiarando che “Nia è più brava a dirigere di me. Sono troppo ossessionato dalle storie originali nella mia testa. Probabilmente non starei bene. Ma Nia ha un modo costante nel trattare la materia che non si vede molto nello spazio dell’orrore.” E che noi difettose, da sostenitrici di donne nellʼhorror, non vediamo lʼora di vedere.

(Beatrice Galluzzi)