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“La natura ha orrore del vuoto”.
Professor Drain

X: Facciamo una scommessa.
Y: Va bene.
X: Scommettiamo che non sei in grado di ricordare il giorno più importante della tua vita?
Y: …

X vincerà la scommessa: quel giorno, almeno nella nostra testa, non esiste più. In quella di nostra madre, forse, esiste ancora. Sappiamo bene che i ricordi dei primi anni della nostra vita vengono cancellati in fretta. Interi album audiovisivi mandati al macero per lasciare il posto ai successivi. Ciò che rimane sono piccoli flash, cenere luminosa di qualcosa che è stato, o che forse non è stato mai. La mente di un bambino è vorace ma ha bisogno di spazio, ogni giorno processa e immagazzina una quantità enorme di informazioni. Da quelle spicciole – il fuoco brucia, l’aria è necessaria, non è consigliabile saltare dalla finestra –, a quelle più sottili – chiunque può avere un cuore nero, mentire a volte serve, potresti essere la persona peggiore che incontrerai nella tua vita. Ma succede anche altro nella testa di un bambino. Insieme agli spazi dove riporre le nozioni esperienziali, viene edificato qualcos’altro. Una sala buia e profonda, spesso impraticabile: una cantina. Lì dentro ci vanno gli scarti che nessun tritarifiuti è riuscito a sminuzzare, tutta quella paccottiglia dall’origine incerta, che noi, disposofobici, accumuliamo nel tempo. Anche le cianfrusaglie possono tornare utili, pensiamo. Anche le cianfrusaglie possono salvarci la vita.

Le memorie oscure entrano nella cantina da una piccola fessura, come il pasto del prigioniero. Succede in maniera graduale e meccanica, tanto che, con il passare degli anni, ci si dimentica di possedere quella cantina. Finché qualcuno non ti chiede: e quella porta da dove sbuca fuori? Di’ un po’, cosa ci tieni lì dentro? E tu non puoi fare altro che scrollare le spalle e dire sai che non lo so? È che ho spostato un armadio, proprio stamattina, e ho trovato la porta lì dietro. Succede, come quando controlli nelle tasche di una vecchia giacca e trovi banconote fuori corso.

Io sono convinto che dietro quella porta ci sia una Wunderkammer, dove teniamo i nostri pezzi più curiosi. Alcuni innocui – incantevoli o meno –, altri pericolosi, da maneggiare con cura, ma che, se avvicinati con il passo giusto, quello virginale, conservano tutta la loro potenza. A scavare non ci si spezza sempre le unghie.

Provate a farlo in questo momento: aprire quella porta, visitate quella cantina. Provate a ricordare la prima immagine che vi ha turbati. Per alcuni potrebbe essere un processo immediato, per altri un po’ meno, devono prima scendere un numero imprecisato di scalini e farsi largo tra blocchi emotivi, falsi ricordi, rimozioni coatte. Io ricordo – o credo di ricordare – una serie di scene terribili (almeno per un bambino di cinque anni, forse meno): un uomo crivellato di proiettili (tanti, troppi proiettili); un bisturi che apre un ventre come un panetto di burro – il rumore è insostenibile – e una mano che ci si tuffa dentro; un ragazzo, sporco e scheletrico, che beve della vernice in un cesso lurido. Per ultima, l’immagine che ricordo con più terrore: un uomo, vestito in giacca e cravatta, immerso in una vasca piena d’acqua. Ma come, mi dicevo, non ci si veste mica per farsi il bagno. E poi quell’uomo è sotto il pelo dell’acqua, dovrebbe essere morto, non dovrebbe muoversi più. E invece lo fa: si alza in piedi, lentamente, e rimane, per qualche secondo, in una posa inquietante. Una posa da insetto. Non solo, i suoi occhi sono del tutto bianchi. Ricordo – o credo di ricordare – di non aver dormito per almeno una settimana dopo aver visto quella scena. Eppure non sono fuggito via, sono rimasto a guardarla fino alla fine. Fino a sudare freddo. Fino a tremare. Me ne stavo lì, ammaliato, cercando di gestire tutti quegli elementi disturbanti: le cose fuori posto e i fallimenti di presenza. Il weird e l’eerie per Mark Fisher. Troppo, davvero troppo per un bambino.

Villa Borghese, trent’anni dopo. Sono seduto al tavolino di un bar, ho appena visto un film e sto lasciando sedimentare le immagini – così i fantasmi torneranno a trovarmi. Due ragazzi, qualche tavolino più in là, parlano tra di loro.

X: Hai ragione, Clouzot è un regista dimenticato. L’hai visto Vite vendute (Le Salaire de la Peur, 1953)?
Y: La nitroooooo!
X: E Il Corvo (Le Corbeau, 1943)?
Y: Avoja, una delle commedie nere più belle degli anni quaranta.
X: Pensa, è ispirato a una storia vera (come sempre, del resto) e il film, a sua volta, ha ispirato il villain di un fatto di cronaca degli anni ’80. Si firmava “il Corvo”, come nel film.
Y: Una curiosa eco tra storia e rappresentazione.
X: Già. E non dimentichiamoci I Diabolici (Les Diaboliques, 1955), altra perla.
Y: Grande film. La scena della vasca, con il cadavere in giacca e cravatta, è sublime.

La vasca, il cadavere in giacca e cravatta. Credo di ricordare che…

Y: E chi se la dimentica! Il cadavere poggia le mani sui bordi smaltati della vasca e si alza in piedi. La moglie lo guarda inorridita, poi si accascia a terra e le scoppia il cuore.
X: Te la ricordi la strana posa dell’uomo? E i suoi occhi? Te li ricordi i suoi occhi?

Non è vero, non ce li aveva gli occhi!

X: Per l’epoca, quella scena, sarà stata un bello shock. Altro che Psycho.

Sì è stato uno shock e non la voglio rivedere più.
Mai più.
E invece la rivedrò.
E ancora.
E ancora.
E ancora.
Tutta la scena, fino alla fine.
Fino a tremare.

All’improvviso, mi cala intorno una fitta nebbia. Quando si dirada mi ritrovo in un corridoio. È notte, sono scalzo e i miei piedi sono piccoli, come quelli di un bambino di cinque anni, forse meno. In fondo al corridoio, una porta a vetri satinati, dai motivi floreali – la riconosco, è la casa dei miei. Oltre la porta, una luce viola, innaturale. La luce di un fantasma. Potrei attraversare il corridoio e vederla da vicino. Potrei farlo, ma ho paura, una paura che mi fa tremare. Eppure sono convinto che questo non sia un fantasma normale. È viola, quindi è potente. Più potente di tutti gli altri.

“Ghosts crowd the young child’s fragile/ egg-shell mind”

Così mi faccio coraggio e attraverso il corridoio, ma dietro la porta non c’è nulla di strano. È tutto come sempre. O meglio, tutto si è magicamente risistemato. C’è la veranda e poi il terrazzo, con le piante di mia madre. Ci sono Tràrici, Eronnule, Code di opossum, Martine Serrole, Fragòni, Capelli di San Lazzaro. E poi c’è lei, la Tradescantia Pallida, la mia pianta preferita, che da lontano sembra avere una consistenza animale, come decine di pipistrelli intrecciati. Chissà perché la chiamano pallida, in fondo è di un bel viola intenso. Forse è lei a produrre quella luce, mi dico. È lei a creare i fantasmi potenti.

Il cameriere è da un po’ che mi chiede se va tutto bene. Ma io me ne accorgo solo adesso, che mi mette una mano sulla spalla. Sì, sto bene, gli dico.

X: I Diabolici è una storia di inganni.

È strano quando qualcuno dà un nome a qualcosa di informe. Sembra che ti stia ingannando.

X: I personaggi sembrano condannati fin dall’inizio.

Come quando il proiettore, fermo da trent’anni sulla stessa scena, si blocca e torna indietro, ai titoli di testa. E quel diamante, chiuso nella scatola di latta, diventa un volgare pezzo di vetro. Un inganno, o una condanna. Scegli tu.

X: E quel bambino? Te lo ricordi il bambino nel film?

“fragile egg-shell mind”

Y: Certo, quello che vede l’uomo scomparso.
X: Ma non gli crede nessuno e viene preso per un bugiardo. Così viene messo in castigo, in un angolo, faccia a muro.
Y: Così non vede più nulla.

E invece guarda ancora più a fondo. Come il cadavere nella vasca, con gli occhi ribaltati, che scruta nella propria oscurità. Così il bambino se ne va in giro nella cantina, negli angoli più bui. Fino a raggiunge la porta alla fine del corridoio. All’origine della luce viola, dove danzano i fantasmi. Dove il fragile guscio d’uovo si è incrinato, disegnando crepe sottili.

X: Tanto qualsiasi cosa vedrà il bambino sarà soltanto una bugia.
Y: Sì, e non avrà mai la stessa dignità di un ricordo.

Le immagini sognate e quelle ricostruite. Le immagini inventate per popolare una solitudine. Una serie di fili che leghiamo tra di loro per creare la nostra, esclusiva, mitologia. Un territorio in perenne assestamento, fino a quando un agente esterno interviene e il magma dell’immaginario diventa instabile. Allora si creano i fantasmi cattivi, quelli che non attraversi con la mano. Sono quelli che impatti, che lasciano ferite.

X: I Diabolici è un film sulla sopraffazione. Non per niente il tema ricorrente è l’acqua.
Y: L’acqua che si infiltra ovunque, fino a rendere tutto viscido e insondabile.

Che l’acqua, allora, ricopra tutto, anche il ricordo stesso dell’esistenza del film. Così l’uomo nella vasca tornerà nella Wunderkammer. Tra le immagini senza origine, sullo scaffale delle cose preziose.

X: Ripensare a questo film m’ha incupito.
Y: Anche a me. Adesso mi sembrano tutti più tristi. Guarda quel ragazzo, seduto da solo, con lo sguardo nel vuoto. Sembra in castigo.
X: Mani dietro la schiena, faccia al muro. Fino a quando la smetterà di mentire.

Avete ragione, non ho visto nessun fantasma. I fantasmi non esistono e il fragile guscio d’uovo non si è mai incrinato. E no, non esiste neanche quella strana luce viola, che nasce dalla pianta e fuoriesce dalle crepe. Lo prometto, non mentirò più e per penitenza ripeterò all’infinito questa frase: la memoria è una lastra d’argento che noi, per tutta la vita, siamo convinti di impressionare.

(Daniele Colantonio)