PROLOGO
Quando uscì, Il cattivo tenente venne presentato al Festival di Cannes nelle sezione Un Certain Regard, ma nelle sale non fu accolto con particolare entusiasmo (tranne in Francia, dove restò al cinema per sei settimane). Solo con il passare degli anni questa pellicola è stata annoverata come uno dei manifesti del cinema neo-noir di fine Novecento.
Il tema che affronta, ovvero la congiunzione di due opposti apparenti – il nichilismo estremo e la redenzione cristiana – era e resta talmente controverso che persino l’abituale co-sceneggiatore di Ferrara, Nicholas t. John, preferì tirarsi indietro. Il progetto del regista non era ambizioso esclusivamente per l’argomento affrontato – scavato fino alle viscere, dilatato in ogni suo eccesso – ma aveva anche il limite del low budget, entrambi sfavori che hanno permesso al Bad Lieutenent di essere quello che è, un focus disturbante sull’autolesionismo e la vana ricerca di una panacea.
Le riprese si sono svolte tra il novembre e il dicembre del 1991, periodo durante il quale la troupe ha girato le scene per New York senza avere i permessi, camminando semplicemente per le strade, entrando nei bar e nei locali affollati. Alcune parti della sceneggiatura – forse quelle più incisive – sono state scritte a pochi minuti dalle riprese. Eppure, la potenza espressiva di questo film risiede esattamente nel punto in cui si fondono il caos di una metropoli senza filtri e gli sproloqui di un poliziotto tossico, prepotente, e miserabile, un Harvey Keitel all’apice della sua ispirazione.
LA VISIONE
Le prime immagini del cattivo tenente lo vedono in auto, concitato, preda della confusione dei suoi figli che litigano. Li rimprovera per aver fatto tardi, impreca. Non appena fa scendere i bambini davanti alla scuola, tira fuori la coca dalla tasca e si mette a sniffare. Ed è qui, nel momento in cui il tenente china la testa, tira, si controlla le narici nel retrovisore, che si affaccia il simbolo, fulcro ossessivo dell’intera pellicola: la croce.
L’iconografia cristologica è una costante che torna nelle inquadrature più statiche di Ferrara. Laddove la macchina da presa smette di tremare assieme al protagonista, appare un Gesù (appeso allo specchietto dellʼauto, sull’anello di una ragazza molestata, al centro del petto del tenente, su una coperta di uno spacciatore, decorato su una scatola piena di soldi). E una croce è anche quella che il tenente si porta appresso, la dipendenza. Dall’alcol, dalla coca, dal crack, dall’eroina. Ma la droga più letale per lui sarà un’altra: le scommesse. È così che il poliziotto gira nervosamente per le strade di NY, sconvolto, con lo stereo a tutto volume sintonizzato sul canale delle partite di baseball. Il tenente che non ha nome, che durante tutto il film non viene mai chiamato se non, appunto, tenente dai colleghi, papà dai figli, e Strawberry (il giocatore del Dodgers per il quale tifa) dalla moglie, e una sola volta.
Non ha nome ma ha un’identità ingombrante, il Lieutenant, voluminosa e scomoda come lo schermo che riempie. Perché è fatto di primi piani, il cattivo, di strette sul viso traviato e nevrotico di Keitel, gli occhi venati, i denti digrignanti. E poi, quando le scene di aprono, c’è affollamento, buio – Ken Kelsch, il direttore della fotografia, lavora di ombre, senza ausilio di illuminazione – e di nuovo stereo accesso e soldi giocati sulla squadra sbagliata. Una nuova partita, una nuova puntata. Migliaia di dollari che si moltiplicano, ma solo a perdere.
L’evento scaturente, quello che dovrebbe riportare il poliziotto sul piano di una realtà sgomberata dai fumi e dagli eccessi, è lo stupro di una suora sull’altare, in una chiesa del suo quartiere (un fatto di cronaca realmente accaduto che fu raccontato da Bo Dietl, nella sua autobiografiaOne Tough Cop). Eppure, quell’atto di brutalità blasfema, che persino i colleghi della polizia condannano – gli stessi che scommettono ogni giorno assieme a lui – ancor più discosta il tenente dal redimersi, se non per il bene comune, per il suo, evitando che una dose di troppo sia l’ultima. Non c’è alcuna espiazione nei suoi intenti. Il Lieutenant non professa il perdono, e di pari passo non lo attende.
Ma nel suo accartocciarsi dentro le anse più lugubri di se stesso, incuneato senza scampo nei vizi e nello stordimento perpetuo, il tenente maledetto si risveglia, e lo fa nel modo e nel luogo sbagliato. La spinta che lo guida nel catturare chi ha violato la suora non è la giustizia, bensì l’incapacità di comprendere l’indulgenza professata dalla religione. La suora assolve i carnefici. E il cattivo tenente sconterà la loro condanna.
I FRAMMENTI
Si dice che Abel Ferrara – anche per sua stessa ammissione – si ispiri al modello di Scorsese. Ma le scene di questo film, il primo della Trilogia del peccato, sono tanto più sgraziate quanto vivide, instabili, talmente corporee da sfiorare il documentaristico. Ed è questo che rende onore al regista, scostandolo dai suoi stessi riferimenti. La rovina che c’è nel Bad Lieutenant non si contempla, né si empatizza, si tocca.
L’orgia malinconica (9’59” – 12′ 06”)
Sulle note di Pledging my love il tenente si rovescia lo Scotch sul petto nudo, bevendolo dalla bottiglia. Sta facendo da spettatore a due prostitute che si esibiscono in pose sadomaso. È sulla stessa canzone che i tre, storditi dallʼalcol, incalzano un lento, in un abbraccio sentito, patetico, fino a quando l’uomo si ritrova solo, e piange, spalancando le braccia come il Cristo dal quale rifugge; geme, sussulta, chiude gli occhi, anelando disperatamente una pietas che sa di non meritare.
Lo stupro sull’altare (17′ 10”-17′ 56”)
Il frammento cruciale della violenza sulla suora dura meno di un minuto, e va necessariamente correlato a quello che lo precede – ovvero il primo piano della ragazza che si droga con il tenente – e la scena successiva – l’interno della casa dove vive il poliziotto con la famiglia, e dove è tutto rosa confetto, dalle pareti ai vestiti delle bambine.
Lo shock visivo e sonoro, che fa saltare lo spettatore sulla sedia, parte con il riff di Kashmir dei Led Zeppelin. All’inizio della sequenza si ha quasi l’impressione che si tratti di uno spezzone di un video musicale, che la scena sia troppo plastica e stoni con il resto. È tutto portato all’eccesso: la luce rossa sullo sfondo, la Madonna che cade, la suora che grida, Gesù che appare vivo sulla croce, ma l’insieme che ne risulta è un affresco volutamente kitsch che si rende inequivocabile, e che allo spettatore tornerà in gola come un rigurgito, per tutta la durata del film.
Il delirio mistico (44′ 42”- 48′ 35”)
Qui siamo al capolinea del protagonista – un capolinea che chiuderà il cerchio nell’ultima scena del film; il tenente non è riuscito a convincere la suora ad accusare i colpevoli dello stupro, e lei se n’è andata, lasciandolo solo davanti all’altare. L’uomo si ritrova nella chiesa vuota, dopo una notte in cui si è quasi ammazzato per gli abusi. Ha puntato tutto quello che aveva, raddoppiando, quadruplicando la posta, e ha di nuovo perso. All’improvviso gli appare un Cristo sanguinante e silenzioso. Dapprima il tenente delira per la collera “Dove cazzo eri? Dove cazzo sei stato?” gli grida, infrangendo ulteriormente ogni regola, persino quella di non imprecare in chiesa, poi si abbandona, sfinito, e lo supplica di perdonarlo. Una scena, questa, che vale non solo la visione del film, ma che è – senza volerlo – l’espressione assoluta di una necessità impronunciabile, quella di essere perdonati davanti a chi si è sacrificato per noi, nonostante tutto.
Alcune curiosità. L’idea del Bad Lieutenant nasce dalla canzone omonima scritta da Abel Ferrara con il suo amico Paul Hipp, che nel film interpreta Gesù.
La sceneggiatura è stata scritta dal regista assieme a Zoe Lund, che interpreta la tossicodipendente dalla quale si fornisce il poliziotto.
La parte del protagonista era stata assegnata a Cristopher Walken, che rifiutò a pochi mesi dall’inizio delle riprese. Anche Harvey Keitel nutrì dei dubbi, ma accettò quando comprese il messaggio che voleva far passare il regista.
DUE PAROLE SU ABEL FERRARA
Abel Ferrara nasce nel 1951 nel Bronx, New York. Cresce soprattutto con il nonno paterno, immigrato salernitano che non parla inglese, e con il quale vede i suoi primi film. Si avvicina alla macchina da presa sin dai tempi del liceo, dove conosce Nicholas St. John, con cui scrive canzoni, poemi e le prime tracce dei cortometraggi in super8.
Il suo primo lungometraggio è un porno, Nine lives of a wet pussy (1976), in cui Abel recita una parte.
L’esordio ufficiale avviene con The Driller Killer (1979), horror in 16mm, ma sarà King of New York (1991) a ottenere un successo economico e di critica. Dopo Il cattivo tenente, la Trilogia del peccato continua con Occhi di serpente (1993), dove ritrova Harvey Keitel e dirige Madonna, e l’horror The Addiction (1995), che viene nominato per l’Orso d’Oro al Festival di Berlino.
Nella maggior parte dei film del regista – il cui ultimo uscito, Siberia (2020), è stato presentato in anteprima al Festival di Berlino – i temi centrali sono la dipendenza, la perdizione dell’uomo moderno, e il degrado ai margini delle città. La metropoli, per Ferrara, non rappresenta solo un’ambientazione, ma è un vero e proprio personaggio che interagisce con i protagonisti, e che possiede la forza suprema capace di trascinarli a fondo e poi risputarli in superficie, irreversibilmente sfigurati.
(Beatrice Galluzzi)