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Non mi ha di certo fatto bene vedere il documentario su Caligari prima di scrivere questo pezzo. Il titolo Se c’è un aldilà sono fottuto è il rovescio della medaglia di uno che fottuto lo è stato soprattutto da vivo. Nei racconti di chi conosceva il regista si cercano di spigliare gomitoli di ostracismo e sabotaggi, matasse inestricabili di incomprensioni e critiche vuote che hanno fatto da sfondo a pellicole che meritavano altra fama. Capostipite Amore tossico, l’esordio di Caligari, uno sputo in faccia alla borghesia, un ritratto amaro dello sgretolamento dei figli dei fiori, scorcio nient’affatto documentaristico ma fin troppo veritiero, privo di intenzioni didascaliche e per questo punibile, additabile esattamente come si fa con il tossico che si accascia su una panchina in un parchetto davanti alle scuole.

Ecco cosa ricordo di Ostia negli anni ’80, quando ci abitavo: una grigia distesa di asfalto disseminata di siringhe a ogni angolo. In mezzo alle aiuole, ai bordi dei marciapiedi, nascoste nella sabbia. Forse non erano così visibili come nell’immagine che ho in mente io, ma a noi bambini era di continuo raccomandato di non toccare nulla – attenzione agli aghi infetti! – e le siringhe comparivano anche dove non ve n’era traccia. I drogati, i bucatini, i protagonisti del film che interpretavano loro stessi erano le ombre dalle quali guardarci; lo spettro di una società che necessitava di essere inquadrata, ripulita, sebbene in un quartiere che, si sapeva, non era certo quello dei Parioli. Ma nella Ostia di Amore tossico si celava una promessa di rinascita, e l’ingombro dei drogati che vivevano di espedienti era una macchia immonda e disturbante. Caligari scelse di girare il suo primo film proprio lì, in quella precisa periferia – ce n’erano tante, nelle città italiane, perché proprio Ostia? – perché per lui quella era una dimensione metafisica, quindi ideale, soprattutto la parte della cittadina dove non entrava la polizia, Ostia nuova, la stessa dove fu ucciso Pasolini.
Di Pasolini questo film porta gli echi sul loro finire, indizi e risonanze disseminate da Caligari come Pollicino faceva con le briciole, mentre il regista sparge squarci desolanti. E dove poteva trovarle, altrimenti, le devastazioni paesaggistiche di una città che non ce l’ha fatta? Amore tossico mostra, per stessa ammissione del regista, la fine che hanno fatto i ragazzi di Accattone quando è arrivata l’eroina. E proprio loro, creature erranti, eviscerate, spinte dall’unica aspirazione di alleviare lo strazio dell’astinenza, sono il fallimento dell’omologazione borghese e allo stesso tempo il tracollo di una gioventù che aveva grandi speranze.
C’è un commento audio in cui il regista, durante tutta la durata del film, discute le scene, i retroscena, e tutto quello che accadde durante le riprese. È importante sentire la voce ferma di Caligari che dice aver scelto campi lunghissimi alternati a primi piani, influenzato dalla Nouvelle vague; le inquadrature larghe e astratte nelle piazze perché fanno “mitologia”; l’influenza sotterranea di Godard e più evidente del suo amato PPP, i quali ha voluto omaggiare ma non imitare, laddove in pochi l’hanno colto. Sono tutte cose che non si sono dette abbastanza, come il fatto che i dialoghi siano stati scritti con precisione, che non si improvvisasse niente, nemmeno l’abbigliamento; che nelle siringhe usate per il buco ci fossero integratori per il fegato, non brown sugar, e che i protagonisti abbiano provato a disintossicarsi durante tutta la durata delle riprese; che il film fu girato in due anni diversi perché non c’erano i finanziamenti; che sul linguaggio gergale usato nei dialoghi il linguista Maurizio Trifone abbia persino scritto un saggio (“Aspetti linguistici della marginalità nella periferia romana”, Guerra edizioni, 1993).

Nessuno ci credeva, in Amore tossico, ma Marco Ferreri sì, e fu lui che lo sostenne, prima e dopo l’uscita. Questo non bastò a sottrarre Caligari al linciaggio frontale e sotterraneo che gli impedì di colmare quel vuoto cinematografico sull’argomento; un buco nero dove venne risucchiato dopo esser stato messo alla gogna, la stessa voragine nella quale scomparirono pochi anni dopo quasi tutti i protagonisti di questo suo film.
E di frammenti memorabili in Amore tossico ce ne sono tanti quante le cartacce che si sollevano da terra nel lungomare ostiense. Ne prenderò solo due, di scene, proprio sul finale, perché rendono l’apoteosi della rovina, il capolinea stesso dell’Amore.

 La riunione dei tossici che si dividono una dose
(1:04:00)

Con precisione al millilitro, in una condivisione disperata ma solidale – a casa di Patrizia, una pittrice, anche lei eroinomane. La donna vive in un appartamento scarno, ingombro di quadri astratti, e sopra un letto singolo, appoggiato al muro, tiene appesa una tela bianca. Dopo che si è iniettata la dose in vena, la pittrice aspira un po’ di sangue nella siringa per poi spruzzarlo sul quadro bianco. E così invita a fare agli altri. Un’immagine al limite del sopportabile, dove schizzi di sangue colano e si accavallano imbrattando il candore rasserenante, e che ben rappresenta cosa vedono di se stessi quei ragazzi: tutto ciò che scorre nelle loro vene è l’essenza che li costituisce e fa schifo, è immonda, sporca, ma è il loro stesso sangue, intossicato e maledetto, a tenerli in vita, lo stesso che rappresenta l’onnipresente memento della loro morte.

Sotto la statua dedicata a Pasolini – dove furono i ragazzi del cast a portare il regista – Cesare e Michela si iniettano una dose non di eroina ma di coca, come ai vecchi tempi
(1:19:00)

Forse la roba è troppo forte, forse è tagliata male. Michela ha un attacco di convulsioni e Cesare la porta all’ospedale, convinto che non sopravvivrà. Mentre il personale medico cerca invano di salvare la ragazza – con il dovuto distacco da “tanto è solo un’altra tossica” – Cesare ripercorre i momenti passati con lei prima che affossassero entrambi nelle dipendenze. Qui Caligari satura volutamente i colori, per rimarcare un sogno hippy che è sfumato con un risveglio brusco. Afflitto per la perdita della sua amata, Cesare lascia Michela in ospedale e torna davanti alla statua. Lì si attorciglia su se stesso, si spara in vena tutta la coca che gli è rimasta – un’inquadratura sull’ampolla come fosse quella con il quale Romeo si toglie dal mondo dopo aver visto morire Giulietta. Alle sue spalle, la triste e vacua rappresentazione di una colomba bianca e un sole tondo – entrambi incrostati di muschio – che dovrebbero omaggiare il poeta assassinato.

Cosa ci rimane, a distanza di quasi quarant’anni, di questo film? Ostia è sempre lì, incastonata nel suo grigiore doloroso e confortante. Si è risollevata, nel tempo, per poi riaccasciarsi di nuovo, tra una rissa e una sparatoria, una brutta storia di mazzette e una lunga serie di abusi; vinta dal peso di chi ne abita i confini, sempre più labili eppure meno includenti. E gli abitanti, oggi, godono del clima mite, marittimo, dell’acqua un po’ meno inquinata, idealizzandone gli scenari trasandati come felice alternativa al caos della capitale, e cercando di non inciampare nelle crepe fonde che tracciano l’asfalto come vene indurite dagli abusi. I tossici, invece, quelli di eroina, quelli del gruppo, non ci sono più, ce ne sono altri, come da ogni altra parte. Ma quei panorami infelici, quelle piazze sporche e malinconiche, disseminate di erba secca e rifiuti, sono tutt’ora terreno di individui equivoci, deragliati negli intenti, provati, capaci di rispecchiare ancora il loro antico fallimento, senza colmare il buco che dall’incavo del braccio gli si è aperto dentro, e sul quale si accaniscono, affondandoci le dita livide.

(Beatrice Galluzzi)